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Bergoglio sulle orme di Wojtyla

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Il titolo è “San Giovanni Paolo Magno”, il Papa  che a maggio avrebbe compiuto 100 anni e che negli ultimi mesi è stato strumentalmente contrapposto dalla galassia tradizionalista a Jorge Mario Bergoglio. Si tratta di “familiari conversazioni” tra Francesco e il teologo Luigi Maria Epicoco.

Progetto di Chiesa

L’eredità più complessa, più discussa, ma anche oggettivamente più grandiosa, che Giovanni Paolo II  ha donato all'umanità è un progetto di Chiesa che lui stesso ha vissuto personalmente e realizzato; ma che, dopo la sua morte, non ha avuto ancora quello sviluppo che ci si aspettava. Per prima cosa, nessuno potrà certo negare che la Chiesa lasciata da papa Wojtyla, pur nell'assoluta continuità con i suoi predecessori, appaia molto diversa e comunque molto cambiata, fortemente cambiata, rispetto a quella che il 16 ottobre del 1978 gli era stata affidata. E infatti, Giovanni Paolo II ha traghettato il cattolicesimo, da una ancora complessa crisi postconciliare, a una nuova evangelizzazione, a una più incisiva presenza nella storia, e a una proiezione universale mai prima conosciuta. Plasmando così una immagine di Chiesa profondamente rinnovata, sia nella linea di un progressivo sviluppo delle indicazioni del Concilio Vaticano II, sia in risposta alle nuove esigenze emerse dalla comunità cattolica e, più in generale, dall’umanità.

Trittico trinitario

Fin dai tempi di Cracovia, Wojtyla aveva maturato una sua visione di Chiesa: una ecclesiologia decisamente cristocentrica, dalla quale poi lui faceva discendere la sua concezione dell’uomo, la centralità della persona umana. Diventato Papa, questa visione rispuntò nelle prime tre encicliche, il trittico trinitario, che caratterizzò la stessa preparazione del Giubileo del 2000. La Trinità, dunque, come chiave interpretativa per comprendere la fede, lo specifico dell’essere cristiano; ma che rappresenta anche la realtà della Chiesa, la sua natura, la sua missione. Un insieme di unità e molteplicità, di identità e diversità. Come dire, anche una maggiore diversità nell’essere Chiesa. Vediamo i tratti essenziali di questa Chiesa. Per cominciare, una Chiesa riconciliata, che ha fatto i conti con se stessa, con il suo passato, con le colpe che ne gravavano la storia, ne offuscavano il volto. E, questo, grazie soprattutto alla grande esperienza del Giubileo, che le ha permesso di varcare la soglia del terzo millennio pentita e purificata.

Meno burocrazia

Una Chiesa più spirituale, più evangelica, più biblica, perché centrata sul primato della parola di Dio. E, quindi, della vita interiore, della santità: una santità finalmente “aperta” a tutti, e non più monopolio di alcune categorie, di alcuni gruppi. Una Chiesa che non è più una monarchia assoluta, come poteva apparire fino a qualche tempo fa. Meno burocratica, e, in prospettiva, più sinodale, come nell’Oriente. Una Chiesa meno clericale e, invece, con un maggiore spazio per i cristiani laici, e in particolar modo (malgrado la misoginia ancora così diffusa tra i chierici) per il “genio” femminile. Una Chiesa non più dominata, rispetto a un tempo, dal moralismo. E intanto, specialmente dopo la straordinaria catechesi di Wojtyla sulla teologia del corpo, cominciava a delinearsi una proposta morale, non più caricata di divieti, di cose-da-non-fare, ma fondata sul disegno di salvezza di Dio Padre – un Padre esigente ma anche misericordioso – e tendente alla maturazione della coscienza del credente. Una Chiesa non solo realmente mondiale, ma espressione di una felice sintesi tra universalità e inculturazione. Con il progressivo  spostamento del suo baricentro verso l’America Latina, l’Africa, l’Asia. Ma dove, proprio per la sua azione a favore della gente più povera, più oppressa, la missione evangelizzatrice viene purtroppo segnata da un nuovo martirio. Come agli inizi del cristianesimo.

Ecumenismo

Una Chiesa impegnata a fondo nel movimento ecumenico. Con un grande sviluppo delle relazioni con le altre Chiese cristiane e con le altre religioni. Anche se, per l’islam, ci sono grossi ostacoli a causa dell’espandersi del fondamentalismo islamico. Una Chiesa che non teme le sfide della modernità. Ormai conosce bene il senso della vera laicità, dei confini tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare. E se rivendica la propria identità e una presenza nella vita civile, non per questo aspira a un ritorno alla societas christiana, a un nuovo integralismo religioso. Una Chiesa incarnata nella storia, e che si è affrancata definitivamente da ogni connivenza, da ogni compromesso con sistemi politico-economici, con ideologie. Così, adesso, può testimoniare credibilmente l’esperienza cristiana nelle diverse società. Può scendere in campo e combattere la sua “battaglia” in difesa dei diritti umani, a partire dal diritto alla vita. In conclusione, una Chiesa che è immagine più trasparente e convincente dell’amore di Dio, della sua misericordia, e quindi di una fede più dentro la quotidianità della vita umana.

Fede di popolo

Una Chiesa più vicina agli uomini e ai problemi degli uomini; e più coraggiosamente impegnata nella costruzione della pace, della giustizia, nel segno della solidarietà, e di una autentica “famiglia” di popoli e di nazioni.  Non era però un progetto chiuso, definitivo, né tantomeno un modello da imporre comunque e dappertutto. Giovanni Paolo II concepiva la Chiesa come frutto di ciò che lo Spirito le dice, e che, attraverso i carismi, suggerisce alle singole persone, ai gruppi, alle comunità. In altre parole, la Chiesa è espressione della fede del popolo, dell’insieme di esperienze, anche le più diverse tra di loro, anche apparentemente contraddittorie, ma che concorrono tutte a diffondere la parola di Dio, a instaurare il suo “regno”. Ad esempio, fu papa Wojtyla a dare una poderosa spallata a quella che una volta aveva criticato come «l’antica unilateralità clericale»; ma fu poi la “realtà” profonda del cattolicesimo, sotto l’azione dello Spirito, a emergere alla superficie, a imporre nuovi protagonisti – i giovani, i movimenti, le donne – e nuove vie – il passaggio da una Chiesa gerarchica, clericale, a una Chiesa più comunitaria, più laicale, più popolo di Dio.

Contro la “pigrizia”

Questo progetto di Chiesa, si imbatté in forti resistenze, subì ritardi e addirittura correzioni di “rotta”, e, in genere, andò incontro a molte incomprensioni. E non sempre a causa di una vera e propria opposizione, ma anche, non di rado, per “pigrizia”, per timore delle novità. Fu quanto accadde, con diverse intensità, sia nella Curia romana, sia in non poche diocesi, e perfino in numerose parrocchie. Dove spesso,  per la persistenza di un autoritarismo clericale, quello del parroco-padron,  i laici continuavano a essere esclusi da qualsiasi responsabilità. Ma già Giovanni Paolo II, per primo, aveva messo in conto tutto questo. Sapeva bene come le rivoluzioni, specialmente quelle spirituali, avessero bisogno di tempi lunghi, prima di riuscire a entrare nelle coscienze e, più ancora, nelle strutture. Infatti, il Papa non si preoccupò più di tanto, quando venne a sapere dell’esistenza di un “fronte del no”. A lui importava seminare, e cioè che, nell’humus profondo del cattolicesimo, si depositasse questa immagine di una Chiesa rinnovata.

Nella realtà quotidiana

Più che un uomo di governo, Wojtyla si sentiva fondamentalmente un pastore, un vescovo, e non era ossessionato dal fare-per-fare, o dal vederne subito i risultati. “L’altro mi appartiene” E allora, più che a governare, a Giovanni Paolo II interessava andare alla sostanza della fede, della missione della Chiesa: che è vivere il Vangelo, e far incontrare l’uomo con Dio. È vivere il Vangelo, e rispettare la dignità dell’“altro”, degli “altri”, qualunque sia il colore della pelle, l’origine razziale, il credo religioso, l’appartenenza politica, ideologica. “L’altro mi appartiene”, aveva scritto Wojtyla in un suo documento. Anche qui, c’è sicuramente una “parte” della eredità che Giovanni Paolo II ci ha lasciato. Una eredità che è “dono” ma anche “compito”, e perciò andrebbe fatta fruttificare più largamente, più profondamente di quanto si sia realizzato finora. Aiutando in particolare i credenti a riscoprire gli insegnamenti di papa Wojtyla, e a declinarli nella loro vita, quella religiosa anzitutto, ma anche quella immersa nella società, nella realtà di tutti i giorni.

Una fede che è vita

Comunque, che il patrimonio umano e spirituale di san Giovanni Paolo II non andrà, non potrà andare perduto, l’ha “mostrato” visibilmente quella immensa folla che, dopo i giorni della morte e del funerale, cominciò a visitare la sua tomba, nelle grotte vaticane; e, in dimensioni ovviamente ridotte, continua ancora oggi ad andare a trovarlo. Una straordinaria varietà di volti, di esperienze, di emozioni, di sentimenti, di situazioni. E un dialogo che ha dell’incredibile. Dialogo di cuori, di anime. Dialogo pieno di storie. Pieno del mistero di Dio. Pieno di vita. Una fede che finalmente è vita. E un Papa che, grazie al suo popolo, non muore. Continua a vivere.

Giacomo Galeazzi: