Nshima. Alla mia richiesta di scattare una foto alla sua idea di bello, Gift, dieci anni, sceglie di fotografare quello che in Zambia è l’alimento base che, per spiegarlo in maniera semplice, somiglia un po’ alla nostra polenta, solo più chiaro e meno saporito. Dalla foto
grafia non si capisce granché e il risultato finale è una super macro (una fotografia estremamente ravvicinata, come se fosse stata scattata con una lente di ingrandimento) che rende l’Nshima più simile al colore dell’asfalto che a quello del cibo.
Lo scatto di Gift fa parte di un progetto intitolato “difendere la bellezza”, nato dal presupposto che tutti abbiamo modi diversi di percepire la realtà in base al luogo in cui siamo nati e cresciuti, a cosa abbiamo studiato, alle esperienze di vita che abbiamo vissuto e a molto altro; a fronte di tutto ciò è chiaro come anche il concetto di bello sia soggettivo e dipenda da diversi fattori.
Il 14 agosto del 2015 sono partita da Milano con una decina di ragazzi per il “Campo Fuori le Mura”, un campo estivo organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per i giovani. Il campo era in Zambia, per la precisione a Ndola. Uno Stato considerato, a livello internazionale, come uno dei Paesi africani in cui si vive meglio: così dicono anche giornali e indici statistici che evidenziano uno sviluppo esponenziale del reddito pro-capite e la crescita di nuovi posti di lavoro, dati soprattutto dalla presenza di industrie estere che scelgono di investire in questo Paese per la ricchezza delle sue materie prime.
Lo Zambia che ho visto durante il mese di permanenza nasconde però tante altre sfaccettature: la generazione tra i 30 e i 40 anni è quasi dimezzata a causa dell’AIDS e il risultato sono migliaia di bambini orfani che vagano sniffando colla tra i viottoli dei compound (baraccopoli). È all’interno di questo scenario che ho portato con me dall’Italia dieci macchine fotografiche usa-e-getta proponendo ai bambini della scuola di Misundu del Progetto Cicetekelo (della ONG Condivisione fra i popoli) di “fotografare la loro cosa più bella” e di “scrivermi due righe con la motivazione di questa scelta”. I bambini hanno risposto a questa mia richiesta con molto entusiasmo e stupore, nessuno sapeva come funzionasse una macchina fotografica e anche solo guardare dentro l’obiettivo e vedere il mondo ritagliato ha destato in loro una forte curiosità.
A inizio settembre siamo tornati in Italia, ho fatto sviluppare le fotografie e mi sono presa il tempo di leggere, di entrare nella vita di questi bambini che hanno scelto di stare al mio strano gioco e il risultato è stato, a mio avviso, strabiliante. Fotografie e messaggi quasi banali ma che nascondono al loro interno una crudezza e una verità in grado di smuovere un sentimento anche nell’osservatore più cinico. Un’inversione di punti di vista continua, tanti sogni e il ricordarsi che ciò che per noi è scontato da altre parti del mondo non lo è per niente.
Mi sembra strano il dovermi fermare e provare a cercare le parole giuste per raccontare quello che per me è stato un viaggio intimo e pieno di sorprese… e allora perché non tornare per un attimo all’inizio, così, per rompere il ghiaccio? Ho 23 anni, diversi viaggi alle spalle e la voglia di aggiungerne sempre di più alla lista, cresciuta in una casa famiglia dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII da due genitori molto coerenti che hanno fatto della frase: “Non esistono figli di serie A e B” il mantra su cui costruire la felicità di molte persone e che, ora che sono “grande”, posso in qualche modo ricondurre anche alla mia.
Una laurea in fotografia alla LABA (Libera Accademia di Belle Arti) di Rimini tra le mani, fresca fresca, conseguita con una tesi che mi riporta di continuo alla mente il ricordo di quello che è stato un mese importante in Zambia in mezzo a tante nuove persone.
Un mese prima di partire ho fatto un tatuaggio su cui compaiono una tartaruga di mare, una mongolfiera ed la parola “Wanderlust” che descrive il desiderio di viaggiare, fare nuove esperienze, vedere nuovi posti, conoscere nuove persone e non fermarsi mai, e con questo spirito ho affrontato il mio viaggio a Ndola.
Il bisogno di conoscere gli altri è la mia risposta alla domanda: “Qual è la tua idea di bello? La tua cosa bella?”. Non si tratta mai di una vacanza o di una parentesi, mi chiedo spesso come facciano alcune persone a voltare pagina dopo esperienze che ti cambiano la vita e, non trovando una risposa plausibile, mi soffermo sul fatto che da questa esperienza ho addirittura ricavato il mio progetto di tesi di laurea.
Se avessi dovuto scattare anche io una fotografia per rispondere alla domanda, probabilmente avrei scelto due momenti precisi che continuano a tornarmi in mente anche a distanza di mesi. Il primo è ambientato a Mary Christine, dove c’è una grande fattoria portata avanti da ragazzi più grandi che, terminati gli studi, iniziano a coltivare la terra e ad occuparsi degli animali.
Qui i ragazzi con handicap trovano qualcuno che crede in loro e che si impegna per rispondere al problema della disabilità che in Africa è ancora vissuta come risultato del malocchio o di una punizione ultraterrena. Durante la nostra giornata a Mary Christine un gruppetto di noi è impegnato nella pulizia dei campi ottenuta con il metodo più antico: il fuoco. All’improvviso il vento cambia direzione e quello che sembrava un semplice fuoco basso con l’obiettivo di bruciare le sterpaglie, si trasforma in un vero e proprio incendio con fiamme e fumo che si ergono alti e si dirigono verso il bosco vicino. Tutti corrono in cerca di acqua per sedare l’incendio e nella calma più totale compare, circondato da una coltre di fumo azzurro, un ragazzo con una maglietta verde che, lontano un centinaio di metri da me, si gira e mi saluta muovendo la mano e guardandomi dritto negli occhi.
Il secondo episodio che avrei fotografato è stato l’incontro con Davies, un bambino di 9 anni, orfano, che al nostro arrivo presso la scuola di Misundu è l’unico a non correrci incontro, sembra quasi non fidarsi. Davies ha un occhio che pende leggermente all’ingiù, è stato picchiato da piccolo, mi raccontano in un secondo momento, e l’occhio non è più tornato normale. Davies è stato colui che più di tutti mi è entrato dentro e commosso durante la mia permanenza a Ndola, il suo comportamento così scostante si è rivelato una flebile difesa, che ho visto cadere nel momento in cui si è sentito libero di giocare e stare con me. Davies alla domanda della mia tesi ha risposto fotografando la porta del campo da calcio, commentando la sua scelta dicendo che gli piace questo sport e che sogna di diventare calciatore e giocare in Italia. Questa è, insieme a tante altre, la risposta più semplice e più cruda che un bambino possa dare e, osservando le motivazioni nel loro insieme, non è difficile notare l’elemento comune che tutti i bambini hanno: sognare.