Tra Maglie, Lecce e Gallipoli è come camminare in un cimitero. Quello di alberi maestosi che decoravano un paesaggio magnifico, fatto di mare, trulli e chiese antichissime. Sentinelle di un passato lontano che, si dice, abbiano visto scorrere la storia: le legioni di Cesare Augusto e le scorribande delle milizie turche alla ricerca di bottino e schiavi. “Queste zone sono funestate – racconta accigliato Donato Rossi, presidente nazionale della Federazione Olivicola di Confagricoltura – non c’è più attività vegetativa, queste meraviglie secolari sono ridotte a dei corpi morti”. E’ il frutto dell’epidemia da Xylella Fastidiosa, un batterio implacabile che attacca gli ulivi portandoli a una morte lenta ma inesorabile. Una piaga di cui non si conoscono le origini: di sicuro c’è solo che è stata importata dall’estero, forse a bordo di un carico di piante ornamentali provenienti da Rotterdam.
A molti ricorda un’altra pestilenza che ha distrutto ampi tratti della flora italiana, il Punteruolo rosso della Palma, ma con alcune differenze: in quel caso si trattava di un insetto che, se preso in tempo, poteva essere estirpato dall’arbusto, qui invece a colpire è un bacillo, invisibile e quindi ancor più pericoloso. Il male trasforma gli ulivi, le foglie cambiano colore, si accartocciano, diventano marroni. Segnali inconfondibili di una malattia che ha fatto capolino in Puglia alla fine del 2013 e, in meno di due anni, ha interessato 1 milione di alberi e compromesso il 5% della produzione di olio. “Sembra un dato minimo ma non lo è – ha sottolineato Rossi – basti pensare che negli anni migliori la produzione olearia della nostra terra ammonta a 5-7 milioni di quintali”.
Uno schiaffo all’economia di una regione giustamente definita l’oliveto d’Europa. E anche alle meraviglie del Creato, di cui questi alberi centenari sono più che degni rappresentanti. E che soffrono di un cancro, di cui ancora non si conosce la cura. “Al governo e a Bruxelles abbiamo chiesto di proseguire sulla strada della ricerca – spiega il responsabile della Federazione Olivicola – oggi stiamo andando per tentativi. La prassi è quella di salvare la pianta finché è possibile, procedendo alla sfrondatura delle parti malate. Ma talvolta è necessaria l’eradicazione”. Cioè all’uccisione dell’ospite per evitare che il contagio si diffonda ai vicini. I casi di guarigione si contano sulle dita di una mano e non bastano, quindi, per dire che sia stata trovata una cura capace di salvare gli ulivi salentini.
Ma occhio a discriminare la flora colpita dalla patologia, in grado comunque di produrre frutti sani, commestibili e non pericolosi per l’uomo. “C’è molta disinformazione su questa cosa. A essere compromessa dalla Xylella è solo la quantità, non la qualità del prodotto, è importante dirlo”. Perché se ancora non c’è stata una riduzione degli ordini, il rischio c’è e creare allarmismi può fare più danni della piaga stessa a una terra già messa duramente alla prova, soprattutto da un punto di vista economico. Ecco perché ciò che sindacati e ovicoltori salentini chiedono è un maggiore sostegno da Roma per far fronte all’ingente perdita di denaro. “Vogliamo la defiscalizzazione delle aree interessate dal fenomeno e aiuti finanziari concreti”. Perché insistere nel pretendere dazi dalle imprese potrebbe voler dire affossarle ancora di più e danneggiare un Paese che da solo produce il 28% dell’olio mondiale e ne importa ingenti quantità dalla Spagna (leader globale del settore).
L’unica nota positiva in un quadro desolante è che il morbo non si è espanso oltre i confini del Salento, “ci hanno segnalato qualche piccolo focolaio in provincia di Brindisi e altri in Corsica. Ma sono casi sporadici”. E di sicuro conoscere i sintomi consentirà di intervenire per tempo laddove la pestilenza si allarghi. Per evitare nuove stragi di questi preziosi testimoni dell’antichità.