UN’IRANIANA NELL’AMERICA DI TRUMP

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Nei prossimi giorni, secondo quanto afferma il segretario al Dipartimento per la Sicurezza nazionale John Kelly, Donald Trump proporrà un nuovo decreto che riguarda chi emigra dai sette Paesi a maggioranza musulmana (Iraq, Iran, Yemen, Libia, Siria, Sudan e Somalia) – eccetto questa volta chi è già in viaggio – cui era già stato vietato l’ingresso negli Usa a fine gennaio, senza cedimenti di fronte alla Corte d’appello che aveva sospeso il precedente decreto. “Vogliamo che entri chi ama il nostro Paese e rispetta i nostri valori” ha detto in questi giorni in Florida. Ma c’è da chiedersi: Trump conosce i suoi cittadini americani?

La testimonianza

J. Mersedeh è una delle 400 mila cittadini americani di origine iraniana. È arrivata con la sua famiglia nel 1986 scappando dalla guerra e dal regime oppressivo in Iran. “Non siamo stati rifugiati politici in senso stretto perché non abbiamo richiesto l’asilo politico – ci racconta – . Mio papà con un dottorato in microbiologia alla mano aveva un’offerta di lavoro senza la quale non saremmo mai arrivati negli Usa. I miei genitori desideravano una vita migliore per loro figlie. La vita in Iran non era facile per nessuno ed era specialmente difficile per le donne. I miei volevano che io e mia sorella avessimo le opportunità che non avremmo mai avuto nel nostro paese. Quando siamo arrivati però il lavoro che gli era stato promesso non c’era più. Come tutti gli immigrati, i miei hanno dovuto fare tutto possibile per sopravvivere. Mio padre ha trovato un lavoro in un distributore (ma solo perché conosceva il proprietario) e mia mamma anche lei dottore in microbiologia, ha cominciato a lavorare come operaia in un laboratorio di sterilizzazione. Pian piano però hanno cercato e trovato lavori migliori, piano piano sono riusciti a comprare casa e a pagarci gli studi all’Università. Questo ha significato per noi l’accoglienza negli Stati Uniti: avere l’opportunità di lavorare tanto e anche duramente ma poi essere ripagati per il lavoro fatto: una meritocrazia”.

Diritti

Non importa di che religione o di che gruppo etnico siano quanti chiedono di entrare in America. In realtà tra i diritti a lasciare il proprio Paese e a chiedere asilo in un altro, inclusi nella Dichiarazione universale dei diritti del 1948 agli articoli 13 e 14, è già stata compresa pure la casistica per cui questo diritto può essere negato. “Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”.

Choc

Chi è integrato negli Stati Uniti da più di 30 anni resta a bocca aperta quando sente parlare di “sicurezza“, perché una società multietnica come quella americana non dovrebbe aver paura di combattere il terrorismo al suo interno come all’esterno con la forza dell’inclusione e del dialogo multietnico e interreligioso. Individuandone davvero gli autori attraverso un efficace sistema investigativo e non facendo di tutta l’erba un fascio come si suol dire, fomentando così l’odio verso certi gruppi etnici e la difesa di talune minoranze mentre altre sono dimenticate.

Lo aveva già spiegato anche il Patriarca di Babilonia dei caldei e presidente della Conferenza episcopale irachena, Louis Raphael Sako intervenuto alcune settimane fa sullo stop ai migranti del Presidente americano. “Coloro che hanno un legame con il terrorismo non devono entrare negli Usa ma le altre persone che cercano una sicurezza per le loro famiglie devono avere questa possibilità. Questo è un diritto dell’uomo… Ma fare un pregiudizio verso una religione è pericoloso. Questo crea tensioni… Ci sono casi di persone che meritano di essere accolti: coloro che fuggono dal terrorismo o dalle persecuzioni”.

Misure sbagliate

Allora quale politica potrebbe essere più adeguata oggi negli Stati Uniti verso i migranti che premono ai confini? E soprattutto per arginare il fenomeno del terrorismo? “Tranne i popoli indigeni, qui siamo tutti immigrati… anche la mamma di Trump (e due delle sue tre mogli”). J. Mersedeh lo dice con cognizione di causa perché da americana che lavora tutti i giorni nel campo delle comunicazioni e delle traduzioni ama parlare per esperienza diretta. “È sempre stato difficilissimo immigrare negli Stati Uniti. Noi ci abbiamo messo anni per poterci venire… gli immigrati e i rifugiati fanno già salti mortali per poterci entrare. Per tanti è come vincere la lotteria. Rendere l’ingresso negli Usa ancora più difficile non aiuta nessuno. Migliaia di studenti arrivano qui dall’estero per studiare e poi rimangono dopo che finiscono gli studi. Perché? Perché la diffusione delle idee è la parte più bella di una società mista, multietnica. Avere una politica dura nei confronti dei Paesi di maggioranza musulmana porta come conseguenza solo di rendere sempre più radicali quei Paesi”.

Futuro incerto

Un’ultima domanda spontanea sul futuro: cosa puoi insegnare ai tuoi figli su questa vicenda che evidenzia chiusura verso alcuni Paesi come la tua terra d’origine, l’Iran e non invece verso l’Arabia Saudita per esempio?
“Abbiamo solo internet a casa e le mie figlie non vedono le notizie alla tv”, spiega Mersedeh che non ha mai avuto paura di nascondere le sue origini iraniane di fronte ad una popolazione americana di oltre 320 milioni di persone, di cui solo 3 milioni sono nativi americani. “La più grande però percepisce che sta succedendo qualcosa di drammatico ed è ovviamente curiosa. Stiamo cercando di proteggerle il più possibile da queste notizie che potrebbero turbare la loro vita quotidiana. Questo perché mi ricordo che quando avevo 7 anni abitavo in un Paese con una politica ostile ed instabile e non potevamo facilmente scappare dalla oppressione quotidiana. Non voglio questo per le mie figlie. Voglio che abbiano dei buoni esempi: così con le mie bimbe ho preparato di recente dei dolci per una vendita di beneficenza organizzata a lavoro, a favore di due ong che aiutano i migranti e una tribù Sioux. Le nuove generazioni devono vedere come si può aiutare a fare del bene. Anche a scuola c’è la raccolta di cibo per i poveri e altre attività per chi è più in difficoltà. Questa è la nostra America! Anche noi come genitori vogliamo che i nostri figli imparino a fare del bene al prossimo, anche se il governo non sempre lo fa”.

E innalzare muri al confine col Messico così come chiudere ad alcuni Stati arabi mentre con altri si continuano gli affari senza sosta, è difficile farle passare alle nuove generazioni come azioni per “aiutare il prossimo” o addirittura per proteggere i cristiani. Papa Francesco non esita a insegnarlo centrando la fede in Gesù sull’incontro con l’umanità e non sullo scarto di alcune sue membra. “Ci difendiamo con muri, fili spinati o con altri mezzi dagli altri popoli che ci possono togliere l’identità. E questo è molto grave. Per tale ragione dico sempre: dialogate fra di voi, dialogate fra di voi!”.

Irene Ciambezi: