C’è chi ne ha fatto canzoni famose che scuotono i giovani e girano l’Italia e c’è chi invece gira per le strade per incontrare “dal vivo” quelle nuove generazioni perse e sfumate dal peso dell’alcool e della droga che si illudevano li rendesse più felici.
Si spostano a piedi per raggiungere ogni angolo di Bologna, senza segni distintivi per non creare imbarazzo e per non dare l’idea di offrire solo un servizio. Due volte a settimana alcuni volontari e giovani in programma terapeutico della Comunità Papa Giovanni XXIII insieme a padre Luca Morigi, sacerdote riminese esperto di Pedagogia sociale, vanno a cercare quei poveri che per mancanza di coraggio o possibilità non chiederanno mai aiuto e che nessuno va a cercare. Obiettivo: mettere la propria vita al fianco di tanti ancora immersi in un legame distruttivo con le sostanze o che vivono in una condizione di marginalità per proporre un dialogo sincero e soprattutto una via d’uscita. Nell’Unità di strada bolognese del Servizio dipendenze patologiche della Comunità di don Oreste Benzi chi sta finendo il programma terapeutico e va in cerca dei giovani in strada ha chiaro il motivo “Come sarebbe stato bello, quando sulla strada c’eravamo noi, se qualcuno fosse venuto a trovarci per stare un po’ insieme”. I volti e i luoghi delle vie della tossicodipendenza di cui parla Padre Luca sono anche state oggetto di recente di una mostra alla Biennale della prossimità di Bologna.
Ma quali sono i luoghi e i volti dei “tossici” bolognesi?
“Bologna, una città culturalmente e economicamente ricca, catalizzatrice dell’umanità più diversificata, è uno snodo da cui passano le diverse direttrici che attraversano il Paese. Ma a livello statistico ha anche il primato nazionale per l’uso delle droghe e i decessi per overdose. Ci siamo interrogati su quale risposta dare e con quali modalità e strumenti intervenire a livello preventivo sul nostro territorio. La comunità terapeutica che pur esiste a Castelmaggiore non può essere l’unica risposta, tanto meno alle necessità immediate delle persone tossicodipendenti che vivono in strada. Per questo abbiamo pensato di strutturare con l’unità di strada anche un percorso formativo di prevenzione da proporre nelle scuole e nelle parrocchie e di aprire una nuova struttura di prima accoglienza. Un anno fa, abbiamo cominciato a percorrere la città a piedi, in lungo e in largo e ad ogni ora del giorno e della notte, per renderci maggiormente conto degli effettivi bisogni per i tossicodipendenti, cercando comunque una collaborazione coi diversi Servizi. Oggi partiamo da un’area periferica, dove in genere si riunisce un considerevole numero di persone per consumare la dose, per poi proseguire a piedi nei quartieri Bolognina, nella zona della Stazione, nei giardini della Montagnola fino ai vicoli della zona universitaria e a piazza Verdi, nota area di spaccio e di consumo in pieno centro urbano. Vi incontriamo soprattutto giovani adulti ovvero persone di età compresa tra i 25 e i 40 anni. Qualcuno anche ventenne”.
Cosa ti ha spinto a questa esperienza di incontro coi “poveri” in strada e a condividere la vita 24 h su 24 in una comunità terapeutica?
“Sono consacrato da vent’anni e nel 2002 sono stato ordinato sacerdote. Ho sempre amato la mia vocazione che nel tempo è maturata nel desiderio di voler mettere la mia vita non tanto al servizio di qualcuno, ma assieme a quella di uomini e donne che non avendolo liberamente scelto, si trovano in una condizione ordinaria di sfavore. Così il Signore mi ha ricondotto ‘a casa’ nella Comunità Papa Giovanni XXIII nella quale, affascinato dalla luminosa testimonianza di don Oreste, fin da ragazzo ho mosso i miei passi vivendo in casa famiglia. Da circa un anno condivido le mie giornate coi ragazzi di una comunità terapeutica a Bologna, e riconosco che c’è tanta solitudine al giorno d’oggi, e la risposta più potente di tutte – quella data da Gesù all’amore del Padre – è la vita dell’incarnazione, che si declina facilmente nella fraternità e nella condivisione. Gesù ha voluto condividere in tutto la nostra vita, fino a farsi carico e servo della nostra povertà! Che bello! La salvezza non è un concetto, ma è un’esperienza di comunione, di reciproca accoglienza in cui nessuno può essere escluso, ma sentirsi amato per ciò che è, amabile e prezioso. C’è sempre maggiore consapevolezza che non ci si salva da soli, dunque, ma soltanto assieme. La condivisione allora è un’espressione molto alta della giustizia, una risposta libera all’amore di Dio, che continuamente ama e raggiunge attraverso la gioia, la forza e la santità di tanti fratelli più piccoli e nella sofferenza. Questi uomini e queste donne, anche molto feriti, sono inconsapevoli maestri di un attaccamento forte alla vita, nel tentativo costante anche se alle volte fallimentare, di riprendere la propria esistenza e ricostruirsi un futuro”.
Hanno soggezione di te Padre Luca i giovani e adulti che incontri?
“Generalmente le persone che incontro per la prima volta manifestano una comprensibile diffidenza o perplessità. Lo sguardo sfuggente o la posizione del corpo pronto alla fuga rivelano la paura di trovarsi davanti ad agenti in borghese. Essendo persone abituate per necessità alla bugia e al compromesso, faticano a credere che siamo davvero ciò che diciamo di essere (‘un prete e dei ragazzi di una comunità’) e che gratuitamente ci sia qualcuno che decida di avvicinarsi al loro contesto di vita. Tuttavia dopo esserci presentati e interessati a loro, il clima si distende e rasserena, aprendosi al dialogo, al racconto dei problemi dell’immediato o della loro storia, oppure ad una serie di richieste e domande, tra le quali, e non ultima ‘don, ma cosa pensa Dio di me?'”.
Qual è il primo vostro gesto quando vi avvicinate a chi vive la strada?
“Inizialmente cerco di stabilire un contatto con lo sguardo della persona che avvicino, anche se spesso risulta difficile. Cerchiamo di essere semplicemente ciò che siamo nella vita, senza particolari metodi di approccio, probabilmente molto più efficaci. In genere salutiamo la persona con cui decidiamo di fermarci, e consapevoli di invadere un’intimità, seppur consumata sulla strada, ci presentiamo: ‘Sono un prete e questi sono giovani che come te hanno avuto problemi con la tossicodipendenza. Vorremmo fermarci un po’ con te, se hai piacere’. Se ci accorgiamo che la persona gradisce la nostra presenza, ci sediamo a terra o comunque dove si trova, e il dialogo parte dalla semplice domanda che fa piacere a chiunque: ‘Come stai?’. Poi ogni incontro è a sé e prende la sua direzione. Alle volte bastano pochi minuti per terminare, altre volte è chiesto di restare in ascolto, ma non mancano le situazioni in cui i ragazzi della comunità raccontano la loro storia, o che si preghi insieme”.
I giovani che incontrate accolgono facilmente la proposta di uscire dal tunnel tramite un programma in comunità oppure si accontentano del metadone offerto dal Sert? C’è un episodio che ti è rimasto impresso?
“Certamente uscirne è molto difficile. Ma la speranza che ognuno possa ricostruire una nuova vita col nostro aiuto l’abbiamo sempre nel cuore. D’altra parte il metadone non aggiusta le ferite nascoste dentro. Ricordo una sera di agosto con la luna piena. Camminavamo in una zona di cantieri, montagne di macerie e arbusti a ridosso della stazione ferroviaria. I ragazzi raccontavano come si sentivano in questa esperienza e cosa rappresentasse per sé. C’era un bel silenzio attorno e tra noi un ascolto molto profondo, fintanto che da un cespuglio nella penombra si avvertono grida di un ragazzo e mugugni incoraggianti di una ragazza. Capiamo che si stanno facendo quando, nella fatica di trovarsi la vena, lei si fa decisa in un conto alla rovescia. Ci allontaniamo per rispetto del momento che questi ragazzi vivono. Tra noi sale l’apprensione e il turbamento davanti ad una scena tanto forte. Nel frattempo preghiamo per loro, aspettando che la sostanza abbia fatto il suo effetto e ci sia la serenità per raggiungerli. Ci avviciniamo presentandoci. L’imbarazzo del ragazzo è evidente e la droga lo rende logorroico ed euforico nel volerci dimostrare ad ogni costo che stanno bene. La ragazza ci mette più tempo ad uscire dalla penombra: esile, sporca, in lacrime. ‘Dio vi ha mandati qui – sussurra – ma io non ne sono degna’. Poi comincia a piangere a dirotto. Per un’ora racconta il suo dramma familiare che nasconde nell’eroina e ogni minuto che passa i suoi grandi occhi sembra comincino a trovare riposo nei nostri. ‘Vorrei venire con voi! Vorrei la comunità! Ma non posso: c’è mio padre da assistere e sono sola! Poi per quelli come me, non c’è più futuro. Cosa dice Dio di noi?’. Ci stringiamo a lei, che accetta anche il nostro abbraccio. Preghiamo assieme, facendoci voce di quel Dio che ormai sente troppo lontano. Ci regala un bacio e mi chiede la benedizione. L’ultimo treno della notte non può perderlo, così ci saluta voltandosi più volte a guardarci con quei due occhi grandi. Forse sarebbe davvero venuta con noi! Alcuni mesi dopo, in comunità terapeutica arriva il suo ragazzo, e ancora viviamo nella speranza che un giorno o l’altro ci chiami anche lei e dica ‘Arrivo'”.