Alle volte i fatti di cronaca, a raccontarli, assomigliano a delle barzellette che strappano un sorriso, tanto è fuori logica il finale della storia. Purtroppo però, quando le vicende riguardano la sanità, il “dopo” racconta di tragedie personali, di invalidità, di decessi. Non c’è nulla da ridere, e tra la gente l’essere soccorsi da un medico ha sempre più il volto nefasto della lotteria, dove se ti va bene vinci la cura, ma se ti va male rischia persino la vita. Un trend in crescita, che se da un lato testimonia un calo generalizzato nella preparazione dei dottori già dalla fase universitaria fino ad arrivare all’inconsistenza dei corsi di aggiornamento, dall’altra rovina la reputazione di migliaia di camici bianchi che fanno il proprio mestiere con scrupolo ma che inevitabilmente vengono travolti da quella che in gergo ormai viene definita “malasanità”.
Un termine, quest’ultimo, sinonimo di cattiva organizzazione, di mancata attuazione dei corretti protocolli assistenziali, di inadempienze gestionali e i dati parlano chiaro: i danni per i cittadini sono attribuibili per il 70% a carenza strutturale dei servizi negli ospedali e a difetti organizzativi, il 30% ad errori professionali di medici e infermieri”. A riferirlo è il Codacons (associazione a tutela dei consumatori) che cita i numeri della Commissione tecnica sul rischio clinico istituita dal ministero della Salute. “In Italia si verifica una media giornaliera di circa 90 pazienti deceduti a causa di errori ospedalieri, decessi che possono e devono essere evitati.
Come il caso – assurdo nel suo divenire – appena affrontato dalla Corte dei Conti toscana, sentenza n.68/2015, nel quale un uomo è morto proprio per le cure fattegli dalla dottoressa di un’ambulanza, chiamata per soccorrerlo. Vediamo il dettaglio. Un 24enne romeno, fermato in stato di evidente ubriachezza, viene condotto in caserma dai Carabinieri di Montecatini Terme e chiuso in una stanza, con porta a vetri, priva di suppellettili e mobili per motivi di sicurezza. Viene chiamato il Pronto soccorso del 118, e in pochi minuti arriva un’ambulanza. Al ragazzo viene somministrata dal medico a capo dell’ambulanza un’iniezione di Midazolam da 15 mg, refertando “stato di agitazione, intossicazione acuta da alcool, alitosi alcolica”.
Dopo un paio d’ore l’ambulanza si allontana, mentre il paziente si addormenta. Passano ancora una cinquantina di minuti e i carabinieri si accorgono che il ragazzo fermato sta sempre più male. Richiamano il 118, che arriva anche stavolta prontamente. Solo che trova il 25enne in stato di arresto cardiocircolatorio. Inutile l’ultimo soccorso, arriva il decesso.
La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia avvia un procedimento penale nei confronti del primo medico che ha effettuato la somministrazione del farmaco, ed è lì che vengono fuori cose agghiaccianti. La morte è arrivato per “depressione acuta dei centri respiratori”, soffocato insomma. La somministrazione di 15 mg di Midazolam per via intramuscolare si è rivelata letale.
Una serie di incredibile leggerezze: la regola impone di iniettare una dose pari a 0,07 – 0,1 mg/kg che, nel caso di un ragazzo di circa 80 kg avrebbe dovuto essere di appena 5,6-8 mg.
Altra regola evasa: il farmaco non andrebbe usato in caso di consumo di alcool; ciò infatti determina un potenziamento significativo dell’effetto sedativo del Midazolam. Errore fatale: uno schiaffo alla fiducia che i cittadini dovrebbero riporre nei confronti della sanità pubblica.
Il processo penale in questione si è concluso con la sentenza del Tribunale di Pistoia n. 1152 del 20 maggio 2011, divenuta definitiva in data 16 luglio 2011 che ha condannato la donna alla pena di sei mesi di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria di 45.000 euro. Alla mamma dello sfortunato ragazzo sono andati 230.000 euro. Nulla rispetto alla vita di un figlio, un grave danno per le casse pubbliche, rimpinguiate dalle tasse pagate dai cittadini.