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SCATTI SENZA DIGNITA’

“Volontà di autocompiacimento e di sopraffazione di chi versava in condizioni di debolezza”, sia che fossero i colleghi sia che fossero i pazienti. Tanto da arrivare ad uccidere. Questo, secondo il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Ravenna, Rossella Materia, era Daniela Poggiali, l’infermiera 42enne arrestata nell’ottobre 2014 con un’accusa pesantissima per la quale poi le è stato comminato l’ergastolo: omicidio pluriaggravato compiuto ai danni di Rosa Calderoni, 78enne morta all’ospedale Umberto I di Lugo. La cosa che più fece inorridire non fu solo la volontà di uccidere, ma quella di farsi il selfie col cadavere. Uno schiaffo alla dignità umana nel dolore. Eppure un episodio non isolato, che testimonia una deriva valoriale sempre più marcata.

Negli Stati Uniti, in Florida, nella contea di Okaloosa due paramedici, Kayla Dubois di 24 anni e Christopher Wimmer di 33 pochi giorni fa sono stati licenziati ed arrestati per via della loro abitudine a gareggiare tra loro a suon di selfie con pazienti in coma, sofferenti, malmessi, in ambulanza come in reparto. Una specie di corsa a chi lo faceva più strano, lo scatto. E così ecco un’anziana a seno scoperto, e ancora un uomo in stato di incoscienza, cui uno dei due concorrenti teneva sollevata la palpebra.

Una volta si immortalavano i momenti belli di una vita, e le fotografie – stampate – diventavano materiale da tramandare di generazione in generazione. Oggi la società della globalizzazione, che rende tutto più veloce e immediatamente fruibile, ha cambiato anche questo atteggiamento, aumentando a dismisura la produzione istantanea di immagini e video ma cancellandone il valore ne ha eliminato anche la memoria.

Così lo scatto non è più un modo per cristallizzare qualcosa, ma uno dei tanti momenti che scorrono nel quotidiano; diventa gioco, superamento della noia, riempitivo di un tempo “vuoto” che ormai non ci appartiene più, che dobbiamo assolutamente riempire e condividere per strappare un effimero interesse momentaneo. Per sentirci vivi dobbiamo “apparire”, e dato che il flusso di informazioni è spaventosamente alto, dobbiamo sorprendere, “urlare”, stupire. Anche a costo di giocare con la vita e con la morte.

Come Tatiana Kulikova, paramedico russo, (nella foto) che si faceva i selfie nell’ambulanza con pazienti privi di conoscenza aggiungendo il corredo del dito medio, oppure il segno della vittoria. Poi postava i suoi scatti su Facebook con delle didascalie altamente professionali tipo “odio il mio lavoro”.

Secondo l’American Psychiatric Association (Apa) si tratta di un disturbo mentale. La nuova patologia ha anche un nome e il termine è selfitis, selfite. Secondo l’Apa chi ne è colpito soffre di un desiderio ossessivo compulsivo di realizzare fotografie di se stesso per poi pubblicarle online, pratica messa in atto però per compensare la mancanza di autostima e anche per colmare lacune nella propria intimità. Selfitis borderline è chi fotografa se stesso almeno tre volte al giorno ma che poi non pubblica le immagini su Internet. Rientra invece nei casi selfite acuta chi scatta almeno tre fotografie di sé e le pubblica tutte online. Infine i casi disperati sono quelli di selfite cronica, coloro i quali provano la voglia incontrollabile di scattare autoritratti lungo l’arco dell’intera giornata pubblicando le foto su Internet più di sei volte al giorno.

Quando l’oggetto della selfie-mania diventa la presa in giro della sofferenza altrui, stiamo ben oltre la patologia. Siamo sull’orlo di un mondo oscuro dentro al quale, nell’indifferenza generale che prende tutto ciò che accade come un “gioco”, stiamo precipitando.

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