Appena ha sollevato il coperchio in plexiglass ha fatto fatica a restare calmo. Tra le lenzuoline destinate ai neonati c’erano serpenti, insetti, lucertole. Pensare a quel macchinario come a un’incubatrice faceva ribrezzo; eppure era realtà, abbandonata accanto alle culle e utilizzata come appoggio per un improvvisato sistema di emergenza utile – pensavano i dottori locali – a proteggere i piccoli prematuri: una stufetta accesa per tenere caldo e un ventilatore per muovere l’aria. Ma il vero orrore era ancora di là dall’essere scoperto. Prima di utilizzarle come appoggio, le incubatrici avevano funzionato qualche tempo con i termostati rotti. Per lui, militare della nave Cavour, l’ammiraglia della flotta italiana, non ci è voluto molto a inquadrare la situazione: con quel sistema la temperatura arrivava a 60/70 gradi, i neonati morivano praticamente bruciati; e anche quelli che venivano sottoposti al “trattamento” stufa elettrica/ventola non avevano miglior sorte. Inutile entrare nei dettagli più raccapriccianti, ciascuno può immaginare da sé quale dramma si consumava inconsapevolmente in quelle improvvisate stanze di ospedale.
Siamo a Mombasa in Kenya, durante una delle missioni dell’anno appena passato, e quando la portaerei arriva in rada il personale di manutenzione di bordo si mette come sempre a disposizione del territorio. Fuori dall’orario di servizio, spende il proprio tempo libero negli orfanotrofi e negli ospedali delle città e dei villaggi dove c’è bisogno praticamente di tutto. Una di quelle storie che nessuno racconta, dove la Marina Militare italiana dà il meglio di sé in contesti internazionali, e dove la generosità diventa un valore assoluto. E cosi elettricisti, idraulici, informatici, elettronici, falegnami escono dalla nave e partono per piccole missioni umanitarie che a volte si trasformano in epocali gesti di umanità. Uno schiaffo a chi non riesce a riservare agli altri nemmeno un minuto del proprio tempo.
“Ogni squadra è composta da volontari che hanno queste specifiche competenze – spiega il primo maresciallo Claudio Punzo, il protagonista di questa storia -. Si partiva verso i siti dove c’era bisogno di noi, per lo più andiamo in ospedali e orfanotrofi. E anche a Mombasa eravamo partiti per eseguire alcuni lavori di manutenzione e ritinteggiatura della loro sala di degenza. Poi abbiamo visto cose da lasciare sbigottiti. Ed è cambiato tutto.
Entriamo nell’ospedale di Mombasa; malati lasciati ovunque, cadaveri di bambini. Varchiamo la soglia del settore neonati, e ne troviamo molti. La pelle bianca, perché contrariamente a quanto si possa credere il colore della pigmentazione si forma dopo un certo tempo… Li vediamo in sofferenza: hanno bisogno di essere riscaldati e ventilati, ma tutto ciò che vediamo è una stufa elettrica e un ventilatore.
Allora chiediamo se ci siano delle incubatrici, ma ci dicono che le cinque macchine a disposizione dell’ospedale sono tutte guaste. Ne prendo una e vedo cosa si può fare. Appena mi avvicino- prosegue Punzo – vedo all’interno rettili di tutti i tipi, scarafaggi, insetti che neanche conosco. Arrivavano anche sui materassini dove i piccoli venivano appoggiati. La prendo e la porto in una zona attrezzata a magazzino di lavoro. Beh, chiamarlo magazzino è già tanto: caldo, umidità, poca luce, niente corrente. Usiamo nostri gruppi di continuità per avere luce e alimentazione. Prima di tutto una pulizia totale, poi cerco di capire cosa non va. Il termostato è fuori uso e non ci sono ricambi. Capisco il perché: gli sbalzi di tensione nell’ospedale provocano guasti in continuazione; c’è bisogno di stabilizzare la macchina.
Ma come fare? Per fortuna trovo dei condizionatori d’aria da parete rotti e gettati da una parte, e da lì recupero i termostati, ancora funzionanti. Poi con santa pazienza mi metto a fare le modifiche per adattarli alle incubatrici. Una la cannibalizzo per sostituire i pezzi rotti delle altre, poi installo i regolatori di temperatura e taro tutto a 37 gradi, come mi hanno detto i dottori. E lì il miracolo: funziona tutto, quei macchinari possono tornare in reparto, riparati e protetti da nuovi sbalzi di corrente”.
Pensava di aver fatto molto mettendo in funzione qualcosa che accogliesse 4 neonati in tutto; in realtà quelle incubatrici ne potevano accogliere tre per ognuna; una vera svolta per l’ospedale e per la vita dei piccoli africani che lì nascevano. “L’emozione più grande? – conclude il maresciallo – Quando mi hanno dato tra le braccia il primo neonato affinché fossi io a posarlo nell’incubatrice”.