Il vero problema della giustizia italiana, in particolare di quella civile, è rappresentato, come tutti sanno, dalla eccessiva durata dei processi. Per comprenderne le ragioni e, ancora, per verificare se le soluzioni adottate dal Governo col recente DL 132/14 siano in grado di invertire la rotta e determinare un’effettiva riduzione dei tempi della giustizia, è necessario sgombrare il campo da suggestioni e informazioni non corrispondenti alla realtà. Affermazioni quali “meno ferie ai magistrati: giustizia più veloce” (mettendo in relazione il numero di cause pendenti con la durata delle ferie dei magistrati) o, ancora, “Tribunali chiusi dal 6 al 31 agosto (anziché dal 1 agosto al 15 settembre)”, che chiunque può leggere sul sito passo.dopopasso.italia.it e che dovrebbero, secondo il nostro Governo, illustrare i contenuti del citato decreto legge, sono espressione di una lettura sbagliata e fuorviante del problema della “lentezza” della giustizia e sono oggettivamente false. È, infatti, falso che la causa della lentezza della giustizia e dell’esagerato numero dei processi pendenti siano i 45 giorni di ferie dei magistrati.
Da una semplice lettura del rapporto CEPEJ del 2012 (si tratta del rapporto sullo stato della giustizia che il Consiglio d’Europa pubblica ogni due anni), emerge con chiarezza come i giudici italiani siano tra i più produttivi d’Europa. Qualche numero: a fronte di un enorme mole di nuovi procedimenti iscritti (2.399.530 nel 2010, contro 1.581.762 della Germania e 1.793.299 della Francia), i giudici italiani risultano essere i secondi in Europa per numero di cause definite, con 2.384.879 processi definiti, a fronte del 1.586.654 definiti dai tedeschi e dei 1.764.255 chiusi dai francesi.
Se passiamo al settore penale la musica non cambia, anzi: i magistrati penali italiani sono i primi in Europa per numero dei procedimenti definiti e chiudono il 95% dei procedimenti iscritti nell’anno.
Ma è anche falso, come ben sanno sia gli addetti ai lavori sia i cittadini che si sono trovati a frequentare le aule di giustizia in quel periodo, che i Tribunali rimangano chiusi tra il 1 agosto e il 15 settembre di ogni anno.
In quel periodo, al contrario, non solo i Tribunali sono aperti, nel senso che sono aperti i locali e le cancellerie, ma si tengono regolarmente le udienze civili relative ad alcune categorie di procedimenti (procedimenti cautelari, di sfratto, di opposizione all’esecuzione, di dichiarazione revoca dei fallimenti) e a tutti i procedimenti ordinari per i quali vi sia specifica richiesta ed apposita autorizzazione del Presidente del Tribunale , le udienze penali di convalida degli arresti, dei giudizi direttissimi e di tutti i procedimenti con imputati detenuti, in materia di criminalità organizzata ed a rischio di prescrizione, le udienze di lavoro e di previdenza e quelle di sorveglianza. Non a caso, durante tutto il periodo in esame, tecnicamente chiamato di “sospensione feriale dei termini”, sono sempre presenti in servizio magistrati giudicanti, sia civili che penali, che si occupano della trattazione delle suddette cause.
Così come sono regolarmente aperti e funzionanti gli Uffici di Procura, i quali assicurano, con la presenza di almeno un PM di turno e del personale amministrativo necessario, tutti gli ordinari servizi. Chiarito quindi che i magistrati italiani non sono fannulloni (ma anzi i più produttivi d’Europa), che lavorano anche nel periodo compreso tra il 1 agosto ed il 15 settembre, che i Tribunali rimangono aperti tutto l’anno per assicurare sempre e comunque ai cittadini il servizio giustizia, proviamo a capire, entrando nel merito del DL di riforma della giustizia civile, se esso sia idoneo o meno a ridurre i tempi biblici dei processi.
Preliminarmente una considerazione di metodo: non è con i decreti legge e, soprattutto, con gli interventi sporadici e non organici e di sistema, che si restituisce efficienza e celerità al servizio giustizia. Si pensi che negli ultimi 20 anni, nel solo settore civile, si sono registrati (per lo più con le forme del decreto legge) ben 15 interventi di riforma, nessuno dei quali ha riguardato il complessivo sistema del processo ma, piuttosto, singole parti del codice di procedura civile o delle leggi processuali speciali.
Entrando nel merito del provvedimento, non si può che condividere la posizione recentemente espressa dal Consiglio Superiore della Magistratura nel parere reso su richiesta del Ministro della Giustizia, secondo cui “….gli interventi proposti con il decreto legge in esame non appaiono particolarmente idonei ad assicurare un reale incremento dell’efficienza del sistema giustizia. Ed invero, molte delle nuove disposizioni presentano, sul piano ermeneutico, non poche criticità sotto il profilo del coordinamento sistematico, probabilmente imputabili alla scelta di incidere sul complesso sistema processual-civilistico, ancora una volta con lo strumento della decretazione d’urgenza, piuttosto che mediante un intervento legislativo di riforma organica della giustizia civile”.
Se va nella giusta direzione la scelta del legislatore di ridurre il contenzioso e di rendere maggiormente gestibile il sistema giudiziario italiano, anche mediante l’introduzione di modalità alternative di soluzione delle controversie (con la doverosa precisazione, come ha fatto il C.S.M. nel citato parere “che lo Stato non può abdicare ad una delle sue principali funzioni per rimettere la soluzione dei conflitti tra i cittadini alla loro forza di negoziato, in specie quando questo avvenga nei settori della realtà socio economica – spesso eccedenti l’area dei diritti indisponibili – in cui la disparità sostanziale delle posizioni di partenza rende in concreto più vulnerabile l’energia negoziale degli individui”) è altrettanto vero, come correttamente evidenziato dal C.S.M., che “gli istituti di nuova creazione (come la procedura di negoziazione assistita e la translatio iudicii in sede arbitrale), riconducibili nell’alveo delle cd. Alternative Dispute Resolutions, non hanno, salvo alcune accezioni, caratteristiche tali da indurre ad ipotizzare che la relativa introduzione possa determinare un’effettiva riduzione dell’arretrato ed un’accelerazione dei processi. Ciò in quanto tali istituti rappresentano una sorta di duplicazione di strumenti processuali già esistenti e rispetto ai quali, peraltro, è anche forte il rischio di sovrapposizione”.
In conclusione, le soluzioni elaborate dal Governo e contenute nel decreto legge 132/14 non saranno in grado, purtroppo, di ridurre i tempi della giustizia civile. Per realizzare tale ambizioso proposito sarebbe, invece, necessario procedere:
– ad un’organica e non rapsodica e settoriale riforma del processo civile che abbia quale obiettivo quello della riduzione della domanda di giustizia e che preveda pochi, garantiti e ben definiti istituti di Alternative Dispute Resolutions e la degiurisdizionalizzazione di interi settori di controversie;
– ad una riforma dell’accesso alla professione legale che abbia quale effetto quello della riduzione del numero di avvocati (si pensi che solo nel Foro di Roma opera un numero di avvocati pari a quello di tutta la Francia), essendovi un chiaro rapporto di diretta proporzionalità tra numero di avvocati e numero di cause promosse;
– all’adeguamento dei ruoli organici del personale amministrativo del Ministero della Giustizia e all’immediata copertura dei ruoli della magistratura mediante espletamento dei concorsi, essendo evidente che solo un’adeguata dotazione di uomini e mezzi è in grado di riequilibrare la storica e persistente asimmetria tra il numero dei procedimenti civili in entrata e le potenzialità di smaltimento del sistema giudiziario.
Claudio Curreli
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia