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PERCHE’ L’ISIS NON CI HA ANCORA COLPITI

Che non esista “un Paese a rischio zero“, il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, lo ha ribadito in ogni occasione utile. Eppure è cronaca che, nonostante la massiccia offensiva lanciata dall’Isis in Europa, l’Italia non sia ancora stata toccata dal terrorismo di matrice jihadista. Come è cronaca, tuttavia, anche quanto riportato nell’ultima Relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, secondo cui – a fronte di una riduzione del numero di foreign fighter in partenza verso i teatri di guerra siriani e iracheni – dalle indagini emerge il “profilo di maggiore interesse e di maggior allarme per il nostro Paese”.

L’immunità italiana

I due dati sembrano in contraddizione, almeno a un primo sguardo. L’Italia, infatti, continua a essere un obiettivo del terrorismo di matrice islamista, al pari di altre nazioni europee e a maggior ragione, essendo Roma contestualmente centro della cristianità e madre della cultura occidentale. Ma forse esistono ragioni per le quali l’Isis, sinora, non ha voluto o potuto colpirla.

Sul tema si è sviluppato un ampio dibattito, volto a spiegare questa singolare “immunità italiana”, peraltro già verificatasi con Al Qaeda dopo l’11 settembre. Le cause, secondo gli esperti, sarebbero di vario tipo, da quelle eminentemente strategiche ad altre di natura squisitamente sociale, passando per un sistema di intelligence ben allenato da decenni di lotta alle mafie e al terrorismo politico.

Un ponte verso l’Occidente

Per chiunque voglia raggiungere l’Europa non esiste posto migliore dell’Italia. Posizionata al centro del Mediterraneo, ben collegata con la Grecia (e quindi con la Turchia e quindi con la Siria), situata a poche centinaia di leghe dalla Libia, la Penisola rappresenta un facile punto d’approdo e di partenza per jihadisti e foreign fighter. Questo (è bene sottolinearlo) non ha a che fare con il problema dell’immigrazione. A oggi, infatti, l’unico terrorista di cui si abbia notizia giunto nel nostro Paese con i barconi è Anis Amri, il tunisino responsabile della strage del mercatino natalizio di Breitscheidplatz a Berlino e successivamente ucciso dalla polizia a Sesto San Giovanni (Milano). Tuttavia al suo arrivo in Italia (nel 2011) non apparteneva ad alcuna organizzazione terroristica, né era radicalizzato. Profughi e migranti per il Daesh sono solo un’inesauribile fonte di guadagno, come ha fatto capire lo scorso anno in Parlamento il ministro Andrea Orlando, rendendo conto della maxi inchiesta sul ruolo giocato da alcuni uomini vicini al sedicente Stato Islamico nei flussi migratori provenienti da Libia ed Egitto. La funzione strategica dell’Italia, secondo gli esperti, costringerebbe l’Isis (ob torto collo) ad avere un occhio di riguardo verso il nostro Paese. Il rischio, a fronte della fisiologica stretta sulla sicurezza conseguente a un attentato, sarebbe quello non poter più contare su questo grande ponte verso l’Occidente e di perdere i lauti guadagni derivanti dall’immigrazione.

Poche seconde generazioni

Esclusi i casi degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 (Bataclan e Saint Denis) e quelli di Bruxelles del 22 marzo 2016, nei quali hanno agito dei veri e proprio commando organizzati, a colpire sono stati per lo più jihadisti improvvisati, armati con mezzi di trasporto e coltelli da cucina. Quasi sempre giovani provenienti da seconde generazioni di immigrati, mai realmente integrati, che hanno trovato nell’islam radicale la risposta all’odio covato per anni nei confronti di una società non percepita come loro. Realtà molto residuali in Italia. Nelle grandi metropoli del nostro Paese (su tutte Roma e Milano) non esistono quartieri assimilabili alle banlieu parigine. Poche sono le realtà urbane e suburbane degradate, a forte concentrazione islamica. L’Italia non ha alle spalle una storia coloniale paragonabile a quella di Francia, Belgio e Regno Unito. Di conseguenza non ha grandi comunità musulmane radicate sul territorio. Questo impedisce, nei fatti, ai possibili terroristi approdati nello Stivale di trovare punti d’appoggio. Poche sono anche le seconde generazioni. La radicalizzazione, quindi, non avviene in aree densamente popolate e poco controllate, ma soprattutto nelle carceri, dove il monitoraggio è costante. Il vero pericolo è rappresentato dal web, nel quale il materiale propagandistico del Califfato gira con sorprendente facilità. Secondo la Relazione annuale presentata dall’intelligence italiana al Parlamento nel 2016 i pericoli più grandi per l’Italia arrivano, infatti, dal cosiddetto jihadismo “homegrown” (letteralmente “cresciuto in casa”). Un fanatismo che si sviluppa fuori dalle moschee, legato soprattutto a internet e ai social media.

L’antiterrorismo funziona (per ora)

Pur con le dovute cautele possiamo dire che (sinora) l’apparato di intelligence e quello dell’antiterrorismo hanno funzionato. L’Italia ha alle spalle una storia particolare che l’ha costretta, dagli anni 70 sino ai 90, a intervenire pesantemente in materia per far fronte al fenomeno del terrorismo politico e alla fase stragista della mafia. Questo impianto normativo, molto efficiente, negli ultimi 15 anni è stato potenziato e calibrato anche sulla piaga della jihad. Nel 2015 è stato convertito in legge un decreto varato dal governo, su iniziativa dell’allora ministro dell’Interno Alfano, che ha introdotto il reato “organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo“, il quale prevede da 3 a 6 anni di carcere per i foreign fighter e per quanti organizzano, finanziano o fa propaganda per il jihad. Il provvedimento ha previsto anche fino a 10 anni di carcere per i lupi solitari e ha rafforzato l’attività di intelligence. Nel 2016, poi, è stato riformato l’articolo 270 del codice penale (dedicato proprio al terrorismo) con l’obiettivo di colpire chi sostiene e finanzia potenziali lupi solitari. Molte di queste norme, tuttavia, come ha scritto il sostituto procuratore di Milano Leonardo Lesti, sono di difficile interpretazione. Ad esempio non è chiaro il discrimine tra auto-addestramento jihadista e mera curiosità. In soldoni: quante volte bisogna visualizzare un video di propaganda del Daesh perché l’attività svolta dall’utente possa essere configurata come radicalizzazione? Problemi, questo e altri, su cui dovrà esprimersi la giurisprudenza, con i tempi atavici della giustizia italiana. Il tutto mentre l’emergenza è in corso.

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