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Perché dico Sì al referendum

Si cominciano ad animare i comitati per sostenere il SI o il NO alla riforma costituzionale. Una riforma che è in cantiere da oltre trent’anni. I temi importanti in gioco sono i seguenti: il passaggio dal bicameralismo perfetto al monocameralismo temperato; i poteri del governo; la riduzione dei poteri delle regioni. Credo che gli argomenti a favore del SI possano prevalere. Partiamo dal bicameralismo, di cui pochi erano innamorati (ricordiamo ad esempio che Dossetti era per il presidenzialismo). La soluzione dell’assemblea costituente in favore del bicameralismo perfetto altro non fu che un antidoto allo scoppio della guerra fredda ed ai timori ad essa collegati sulla tenuta del fragilissimo sistema democratico che si stava costruendo. Si scelse quindi la soluzione del “governo debole” e di un sistema di pesi e contrappesi disseminato tra i vari gorgani costituzionali e di garanzia: potremmo dire che la governabilità non rappresentava un valore assoluto.

Questo sistema ha dato buona prova di sé sino a quando non sono entrati in crisi i partiti (dalla metà degli anni ’70), che erano i veri detentori del potere che la Costituzione affidava al “popolo sovrano”. Da questo momento ha inizio la discussione sulla riforma costituzionale sulla seconda parte della Costituzione, fondata sulla necessità di superare un meccanismo di produzione delle leggi ormai superato dalla storia e di aumentare la governabilità: necessità, peraltro, reclamata dai partners europei e ispirata dai Trattati. Molte commissioni si sono succedute ma ogni tentativo di riforma è andato a vuoto. Siamo così giunti al secondo referendum dopo quello del 2006. Chiunque dall’esterno guardasse l’Italia non potrebbe che dire che siamo un Paese tanto inaffidabile quanto…tentennante. Così, abbiamo oggi l’occasione per uscire dal guado. Viviamo da anni, infatti, non già solo una crisi politico-istituzionale ma una ben più seria crisi costituzionale. I fautori del NO alla riforma enfatizzano la perdita della rappresentanza popolare legata alla soppressione del Senato, ma dimenticano che nell’attuale Costituzione il Senato non è eletto da tutti i cittadini: solo chi ha compiuto 25 anni può votare un senatore.

Ciò ha comportato la mancanza di circa 4 milioni di voti ad ogni elezione e risultati elettorali risicati in uno dei due rami del Parlamento: situazione cui si è sempre cercato di rimediare con leggi elettorali sbagliate e persino incostituzionali. Ricordiamo cosa è accaduto da ultimo nel 2013 ed i tentativi di dare vita a Governi con maggioranze non omogenee…e persino con una inedita rielezione del presidente della Repubblica. Ecco perché siamo da troppi anni in una crisi costituzionale che va superata con il superamento del bicameralismo perfetto, che rappresenta una singolare unicità del nostro Paese. I fautori del NO sostengono che l’abolizione del Senato comporterà una perdita di potere del Parlamento, ma non è così sia perché il nuovo “senato regionale” potrà godere di poteri rilevanti (persino troppi!) sia perché potrebbe accadere esattamente l’opposto e cioè un recupero di autorevolezza del Parlamento. Se vi sarà una sede unica o prevalente di produzione legislativa (cioè la Camera dei deputati), ciò finirà per valorizzare un Parlamento oggi del tutto svuotato di credibilità proprio per il continuo ricorso al negoziato politico tra deputati e senatori e relativo discarico di responsabilità. Una Camera unica non potrà che aumentare la trasparenza e non potrà che far emergere con maggiore precisione la responsabilità politica oggi derubricata a responsabilità giudiziaria.

Accanto all’obiettivo della governabilità si può quindi aggiungere anche l’aumento di credibilità del Parlamento, che si traduce nella concessione di una fiducia unica; nella disamina della corsia preferenziale dei decreti leggi; etc.. La decretazione di urgenza rappresenta un altro dei punti cardine di questa riforma. A chi invoca il timore di una spinta” autoritaria” del governo, si dovrebbe ricordare che oggi la pressoché totale produzione legislativa è affidata a decreti legge presentati dal governo, con norme ben lontane dai presupposti della “indifferibile necessità ed urgenza”. Vi è una diffusa consapevolezza che si tratta di decreti legge quasi tutti incostituzionali ma sui quali da tempo si preferisce sorvolare. La riforma, peraltro, consentirà al Presidente della Repubblica di rinviare i decreti legge alla Camera con un binario più forte dell’attuale e questo è un altro esempio di come non sia vero che la riforma amplifica i poteri del governo. La riforma piuttosto rafforza il Parlamento più che il premier e dunque non è corretto affermare che essa tocca la forma di governo se si considera che il premier non potrà nominare e revocare i ministri, non potrà porre veti, così come accade in altri sistemi dove il premier ha certamente maggiori poteri (es: UK; Germania).

Passiamo alla riforma del titolo V. Qui davvero non si devono spendere molte parole. Il potere legislativo regionale è nato e cresciuto in un preciso contesto, culminato nel 2001 con il varo di inediti poteri costituzionali alle Regioni perché si credeva in tal modo di assorbire e controllare il massimalismo leghista. Ma quando vennero conferiti detti poteri non si pensò ad una camera di compensazione delle varie istanze politiche cioè di un luogo dove Stato e Regioni possono dialogare e risolvere le questioni politiche. Ciò ha comportato una enorme incertezza del diritto e veti incrociati che la Corte costituzionale (cioè un organo giurisdizionale e non politico) ha dovuto risolvere. Un Senato composto da consiglieri regionali e da qualche sindaco -democraticamente eletti- potrebbe rappresentare uno strumento di risoluzione di conflitti politici, come è giusto che sia in un paese normale. Sotto altro aspetto, la riforma contiene norme che dovrebbero prevenire i dissesti finanziari delle Regioni (qui semmai il punto debole è che non vengono toccate al momento quelle a statuto speciale).

Alcune notazioni finali. Certo la riforma poteva essere licenziata in un clima politico diverso e con una maggiore convergenza delle forze in campo (ma ricordiamoci che FI aveva votato SI in Parlamento). Ma questo aspetto non è adesso ragione sufficiente per respingere un testo che forse poteva essere migliorato (per non far storcere il naso a taluni cultori del costituzionalismo) ma sul quale vale la pena discutere e, auspicabilmente, votare SI per potere alimentare la speranza di realizzare: sviluppo economico, innovazione amministrativa, minore burocrazia; celerità nelle decisioni; assunzione di responsabilità. Si potrà, quindi, uscire da un atavico immobilismo e guardare al prossimo futuro per giocare la partita cruciale della riduzione del debito pubblico.

(avv. Giovanni Pesce – comitato indipendente per il SI alla riforma. SI come Sviluppo e Innovazione)

Sino al voto del 4 dicembre Interris.it, senza prendere una posizione, ospiterà i sostenitori del “Sì” e del “No” al referendum, per consentire ai lettori di farsi liberamente una propria opinione a riguardo

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