“Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?”. Se lo chiese Benedetto XVI quando, il 22 maggio del 2006, si recò nell’ex campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau per ricordare le vittime dell’Olocausto. Lui, tedesco, che aveva assistito in prima persona alle atrocità del nazismo, riconobbe: “Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile, ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania”. Quasi un mea culpa, una richiesta di perdono da parte dell’umanità, anche quella non direttamente coinvolta.
Genocidio pianificato
La Giornata della Memoria – che quest’anno ricorre a 72 anni dalla liberazione dei prigionieri del lager da parte dell’Armata Rossa sovietica – ci ricorda che l’Olocausto degli ebrei non fu un effetto collaterale del conflitto che insanguinava il mondo in quegli anni ma un massacro scientificamente pianificato. Una guerra nella guerra volta all’eliminazione fisica di altri esseri umani, la cui unica colpa era quella di professare una religione diversa. Fu la “soluzione finale del popolo ebraico” che Hitler ordinò ai suoi scherani. L’esito di una persecuzione prima teorizzata dal partito nazista e poi attuata con le leggi di Norimberga, la privazione dei diritti, le deportazioni e le esecuzioni.
I lager
I campi di concentramento costruiti in Europa durante l’espansione dei domini del Terzo Reich furono migliaia. Molti vennero distrutti dai tedeschi per nascondere le prove delle atrocità commesse. Altri rimasero in piedi, cupe sentinelle di un passato di cui dovremo continuare ad avvertire il peso per il resto della storia. Tra quest’ultimi c’è Auschwitz, la fabbrica della morte per antonomasia, operativo dal 1940 al 1945. Situato nella Polonia meridionale, allora invasa dalla Germania, divenne la prigione per almeno un milione e 300 mila persone. Un milione e 100 mila (soprattutto ebrei) vi trovarono la morte: 900 mila vennero giustiziate al loro arrivo, mentre 200 mila morirono di fame, malattie o furono uccise successivamente perché considerate “inutili”. Tra le vittime illustri di quel genocidio ci sono Anna Frank, il compositore austriaco Viktor Ullman ed Edith Stein, convertitasi dall’ebraismo al cristianesimo e canonizzata con il nome di Santa Teresa Benedetta della Croce.
Le esecuzioni
I prigionieri venivano ammazzati nei modi più efferati e sadici: fucilazioni, torture, percosse, invio nei forni crematori e nelle camere a gas (le famigerate “docce”) e criminali esperimenti medici, condotti per lo più da Josef Mengele, “l’angelo della morte“, uno dei maggiori teorici dell’eugenetica.
Deboli massacrati
La “selektion“, cioè la divisione tra gli abili al lavoro e i deboli, veniva fatta alla stazione del campo, dove i deportati arrivavano dopo ore e ore di viaggio all’interno di vagoni stracolmi, nei quali erano costretti a restare in piedi e da cui non potevano scendere nemmeno per espletare i propri bisogni fisiologici. “Erano dei carri bestiame” raccontano spesso i sopravvissuti a quell’inferno. Molti morivano durante il tragitto, a causa della stanchezza. All’arrivo ad Auschwitz i medici delle SS verificavano le condizioni dei prigionieri. I più forti venivano destinati a lavori massacranti, gli altri erano mandati a morire. Tra questi c’erano soprattutto anziani e bambini, considerati “scarti” da eliminare. La selektion veniva poi ripetuta quotidianamente per accertare se il deperimento organico derivante dallo sforzo fisico e dall’inedia rendesse inabile anche chi in un primo momento era riuscito a scampare la morte. Lo trasformasse, cioè, in un “Muselmann“, termine col quale venivano scherniti coloro che, non riuscendo più a reggersi in piedi, camminavano curvi, ricordando la tradizionale preghiera islamica.
Homo homini lupus
Le condizioni proibitive portavano l’uomo a uno stato ferino. Non erano pochi i prigionieri che diventavano delatori, denunciando gli altri internati e condannandoli a morte certa. Il tutto allo scopo di avere un trattamento di riguardo da parte dei nazisti. C’erano così i “Prominent“, che godevano di una posizione privilegiata, e i “Kapò“, con compiti di comando e sorveglianza.
Il valore della memoria
Sappiamo tutto questo grazie al lavoro compiuto dagli storici sui documenti che il Terzo Reich non riuscì a distruggere prima della sconfitta ma anche per le testimonianze di chi riuscì a salvarsi da quell’inferno. Persone che, dopo la guerra, si sono dedicate anima e corpo affinché il ricordo di quegli orrori non svanisse. E che oggi devono confrontarsi con le follie del negazionismo e del revisionismo, quasi che il male non sia sempre tale ma lo si possa in qualche modo giustificare. Il loro racconto ci insegna, invece, che nella storia quasi sempre esiste un bianco e un nero, un torto e una ragione. E che la memoria può salvarci.
foto di Fabio Beretta