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Montenegro, istituti psichiatrici come prigioni

Lo stato di progresso di un Paese sulla strada dell’integrazione sociale si valuta – secondo Bruxelles – sul rispetto dei diritti umani delle persone con disturbi mentali. Il Montenegro, piccolo Stato dell’ex Jugoslavia dall’altra sponda dell’Adriatico, dimostra di essere ancora molto indietro poiché continua ad internare le persone con disturbi mentali in istituti psichiatrici più simili a prigioni che a ospedali. Anche dal punto di vista del percorso di salute degli internati, l’approccio utilizzato è vecchio ed esclusivamente farmacologico, fermo alle tecniche seguite negli anni ‘60. Le strutture adeguate sul territorio sono numericamente troppo esigue e mancano i fondi per la formazione del personale specializzato.

A dipingere il drammatico quadro è stato un recente rapporto realizzato dal Consiglio d’Europa sullo status delle persone affette da disturbi psichiatrici. Secondo lo studio, il tempo di permanenza nei centri di salute mentale montenegrini è di circa due anni, ma ci sono persone che vivono lì da sempre perché le famiglie non le riaccolgono in casa. La malattia mentale è ancora fortemente stigmatizzata e un parente affetto da tale patologia è vissuto come una vergogna per l’intero nucleo familiare. Il reinserimento sociale e lavorativo – che dovrebbe essere il fino ultimo di ogni degenza – diventa difficile se non impossibile.

Il principale istituto per persone affette da problemi mentali del Montenegro è il centro di Dobrota, un casermone grigio con le sbarre alle finestre, in cui vivono più di duecento persone, alcune delle quali – secondo il personale addetto – sono “parcheggiate” lì da anni. “In Montenegro non c’è moltissima scelta per chi soffre di disturbi psichici – racconta a Italia Caritas l’ex direttore di Dobrota, Aleksandar Tom uk – l’unica opzione è farsi ricoverare presso questa clinica, ma le liste d’attesa sono interminabili e i posti letto insufficienti. Spesso la situazione è resa ancora più complicata anche per via dei lungodegenti”.

Sono ancora assenti progetti di assistenza domiciliare e centri di salute mentale distribuiti sul territorio per favorire un approccio più umano. Mancano i fondi così come il personale specializzato anche per permettere il reinserimento delle persone una volta terminato il percorso di cura. “Come trovare un lavoro a queste persone, una volta che si proverà a inserirle nella società, e come combattere lo stigma? – prosegue Tom uk – Le famiglie, in moltissimi casi, non vogliono riprendere a casa i malati. Per loro sono unicamente motivo di vergogna, una bocca in più da sfamare”.

“L’ospedale non può durare per tutta la vita – conclude l’ex direttore – il nostro obiettivo ultimo resta la de-istituzionalizzazione”. La risposta dovrebbe venire dalle istituzioni che dovrebbero prendersi cura di questi soggetti e delle loro famiglie. Ma, finora, la strategia “per il miglioramento della salute mentale del Paese”, già varata nel 2003, è rimasta solo sulla carta.

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