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MOGOL: “IO, BATTISTI E IL NOSTRO CANTO LIBERO”


“Prego ogni giorno per Lucio, così come faccio per tutti i miei cari defunti”. Ha una voce commossa Giulio Rapetti, in arte Mogol, alla vigilia dell’anniversario della morte del suo amico e storico sodale Lucio Battisti.

Era il 9 settembre 1998 quando la notizia dell’improvvisa scomparsa di uno dei più grandi, influenti e innovativi cantanti italiani lasciò un vuoto nell’anima di diverse generazioni di persone cresciute al ritmo dei suoi brani.

Le canzoni di Battisti sanno emozionare, perché scavano tra le esperienze che nascono e maturano tra le pieghe della vita vissuta, quella fatta di “discese ardite” e di “risalite”, per mutuare Io Vorrei… Non Vorrei… Ma se Vuoi…, uno dei tanti successi del duo Mogol-Battisti.

Emarginato dallo star-system perché non cantava canzoni impegnate, non saliva sul carrozzone alla moda del ‘68, Battisti riuscì e riesce tutt’oggi a penetrare nel cuore puro della gente, che ne apprezza – parafrasando un altro capolavoro di Mogol e Battisti – il suo “canto libero” che “nasce in mezzo al pianto (…) e s’innalza altissimo”.

Un “canto libero” in quanto figlio della cultura popolare, ci tiene a precisare Mogol, il quale recrimina che oggi essa non viene valorizzata come si dovrebbe. Ma la nostalgia non può ingabbiare: il paroliere e produttore Mogol sostiene la cultura popolare con il Cet, Centro europeo di Toscolano, nato nel 1992 con “lo scopo di valorizzare e qualificare principalmente nuovi professionisti della musica pop”. Una scuola in cui forte è l’impronta di Battisti, come rivela lo stesso Mogol in questa intervista a In Terris.

Maestro, che bilancio può trarre dopo venticinque anni d’attività del Cet?
Tra compositori, autori e interpreti, abbiamo diplomato 2500 giovani. Si tratta di risultati ottenuti nonostante le circostanze avverse, le sovvenzioni statali che riceviamo si sono dimezzate nel tempo. E poi la qualità oggi non è premiata.

A cosa fa riferimento?
Un tempo i dischi venivano prodotti dalle case discografiche e promossi da radio e tv. Oggi tutto è cambiato: chi fa promozione produce anche i dischi. Non c’è più una scelta libera da parte del fruitore di musica. Ma così trionfa il profitto, il commercio e viene schiacciata la cultura popolare.

Quanto c’è bisogno di valorizzare la cultura popolare nell’Italia di oggi?
Moltissimo. Dobbiamo considerare che nella società c’è una larga fetta di popolazione non laureata. La cultura di costoro è determinata dalla divulgazione di musica, poesia, arte fruibili a tutti. Quando la cultura popolare era viva, si formavano più autori perché esisteva un’eredità culturale che si tramandava non solo attraverso i libri ma anche attraverso la memoria del popolo.

Tra i giovani musicisti, a suo avviso c’è ancora qualche valido interprete della cultura popolare italiana?
Sicuramente lo è il compositore Giuseppe Anastasi. Ma non è più come prima, e non lo dico io: la gente per la strada si è ormai accorta della crisi della musica dovuta al degrado della cultura popolare.

Anastasi è stato lanciato dalla vostra scuola…
Esatto. Lui è autore di brani famosi, alcuni interpretati da Arisa – anche lei uscita dalla nostra scuola – come La Notte o Sincerità. Ricordo poi che all’ultimo festival di Sanremo la migliore autrice è stata Amara, che è una nostra diplomata. Ed ancora: è nostro allievo Pascal, famosissimo in Kazakistan, e per questo soprannominato Pazanistan. Pensi che ho passeggiato con lui ad Astana, la capitale, e tantissime persone lo fermavano. È successo quattro anni fa, quando sono andato in Kazakistan per preparare i docenti dell’Accademia Nazionale per Cantanti.

Un riconoscimento importante, che dimostra come la cultura popolare italiana venga apprezzata all’estero…
Sarebbe bello se lo stesso apprezzamento provenisse dall’Italia. Ci sono Regioni che sostengono la nostra scuola ed altre no, nemmeno l’Umbria, nonostante la nostra sede si trovi nel suo territorio. Ed altre dimostrazioni provengono ad esempio dal Festival di Sanremo, dove nella scelta degli artisti si ricorre a X-Factor, Rtl, Amici… Si cerca la notorietà, non c’è più interesse per la qualità. Gli ascolti, la pubblicità, quindi il profitto e il mercato la fanno da padroni.

Questa sua critica alla società del profitto mi fa tornare alla mente alcuni testi dei brani scritti per Lucio Battisti. È corretto leggere un’accusa alla civiltà industriale, disumanizzata in brani come Ma è un canto brasileiro?
Sì, è corretto. La società tecnologica ha ucciso la cultura popolare. Inoltre la ricerca ossessiva del successo, della fama personale ha smantellato la bellezza dei rapporti umani semplici, disinteressati. Le mie canzoni per Lucio erano invece un manifesto della semplicità: delle parole, ma anche dell’amore, della vita, della morte.

Scrivere di semplicità negli anni sessanta e settanta era la vera trasgressione. Il vostro andare controcorrente vi costò anche pesanti contestazioni…
Ci rimproveravano di non scrivere canzoni di protesta. Per questo ci hanno dato dei fascisti: una leggenda che è andata avanti per tanti anni, eppure la vera forma di fascismo è stigmatizzare chi non è omologato a uno standard imposto. La mia “colpa” è stata quella di essere rimasto libero, nonostante le mode musicali dell’epoca, diffuse spesso per lucro da chi faceva l’impegnato indossando abiti firmati.

Che ruolo svolge la spiritualità nella sua musica?
La spiritualità è il motore della nostra creatività. All’ingresso di casa mia c’è un cartello con scritto “l’arte è figlia del cieco”. Noi siamo ricettivi, il creativo è Dio. Noi dobbiamo soltanto predisporci per ricevere l’ispirazione.

Lei è considerato un poeta, forse uno dei pochi rimasti. C’è ancora spazio per lo spirito poetico nella società delle comunicazioni di massa?
Il quattordici percento degli italiani scrive poesie. È importante però affinare questa attitudine. Nella nostra scuola stiamo facendo corsi di scrittura poetica.

Cosa insegna agli aspiranti poeti?
Anzitutto la sintesi. La poesia senza sintesi non esiste. E poi è fondamentale la preparazione, lo studio dei grandi successi del passato. Ma soprattutto un poeta deve sempre considerare che ogni strofa deve essere tratta dalla vita, dalle esperienze del vissuto, non dal linguaggio delle mode.

I poeti vengono ancora apprezzati, se si pensa al successo della trasmissione “Viva Mogol”, andato in onda sulla Rai un anno fa. Che bilancio trae da quell’esperienza?
Ci sono stati cinquemilioni di telespettatori per ognuna delle due puntate. È stato un grandissimo successo, l’unica occasione in cui la Rai ha battuto la trasmissione Amici.

C’è una sua canzone a cui è particolarmente legato?
Non una in particolare. Ce ne sono una ventina.

Qualcuna che secondo lei è stata poco valorizzata?
Sì, mi viene in mente Bianche raffiche di vita, che nessuno conosce, che ho scritto con Mario Lavezzi. E poi Dove arriva quel cespuglio, interpretata da Lucio.

Un ricordo di Lucio Battisti a diciannove anni dalla morte?
Lucio aveva una cultura pop spaventosa, conosceva quanto accadeva nel mondo e aveva la capacità di analizzarlo in modo molto approfondito. Del resto se non si comprende ciò che la realtà offre, non se ne possono cogliere gli aspetti di bellezza, farli propri e reinterpretarli.

Come si svolgeva il vostro lavoro?
Veniva a trovarmi a casa una settimana all’anno. Ci trovavamo alle nove del mattino e ogni giorno realizzavamo una canzone. Entro la mattina io scrivevo il testo ed entro la sera lui componeva la musica e imparava il testo a memoria.

Domani (oggi, ndr) a Rieti sarà con i giovani per l’incontro di pastorale diocesana. Di cosa parlerà?
Della creatività, della possibilità che ognuno di noi possiede di valorizzarsi in quanto persona libera. E in questo senso parlerò dell’opera di Lucio, delle canzoni che abbiamo scritto insieme: un inno alla libertà.

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