Triton, Poseidon, Hermes, Minerva, Zeus. Non sono solo delle antiche divinità greche, ma i nomi delle operazioni dell’Agenzia Europea Frontex per il pattugliamento delle coste europee. Mare Nostrum invece è la missione di salvataggio dei profughi che il governo dell’ex premier Letta ha istituito nel 2013 dopo la tragedia nel mare di Lampedusa, nella quale morirono 366 persone. Il 31 ottobre l’operazione italiana, che aveva lo specifico mandato di soccorrere i barconi e salvare le tante vite umane e poteva spingersi fino in acque internazionali, si è conclusa ufficialmente.
Triton di Frontex, attualmente in essere, ha come suo unico obiettivo quello di perlustrare le coste europee e dei Paesi confinanti; e solo fino a 12- 15 miglia marine. Le motovedette praticamente, non possono spingersi nelle acque internazionali. Così l’Europa sceglierebbe di lasciar morire delle persone. Non solo: l’Italia per Mare Nostrum aveva stanziato circa 9 milioni di euro al mese, mentre Frontex ha messo sul piatto solo 2,9 milioni di euro annui. Dire che si tratta di una missione assolutamente insufficiente, carente sia dal punto di vista economico, sia sotto l’aspetto dei mezzi a disposizione, è un eufemismo. Uno schiaffo al concetto di solidarietà.
Per di più la collaborazione dei Paesi dell’Unione europea è volontaria, quindi ogni Stato membro può decidere se fornire o meno, e in che numero, i mezzi da impiegare nella missione. Secondo le Sar – le convenzioni internazionali di salvataggio in mare che vincolano anche l’Europa – ogni imbarcazione è obbligata a dare la precedenza assoluta al salvataggio delle vite umane, ma se le navi che ha a disposizione Frontex non possono superare le 12 miglia dalla costa, cosa succederà a tutte quelle persone che viaggiando sulle “carrette del mare” si troveranno in pericolo in acque più lontane? Secondo i dati dell’Unhcr – l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – sono circa 207.000 i migranti che hanno tentato di attraversare il Mediterraneo, ma non tutti ce l’hanno fatta. Sarebbero circa 3500 le vittime accertate di quello che viene considerato un viaggio letale.
“Non si può fare ricorso a misure deterrenti per fermare una persona che è in fuga per salvarsi la vita, senza che questo comporti un ulteriore incremento dei pericoli in cui incorre – ha affermato Antonio Guterres, Alto Commissario per i rifugiati dell’Onu – Vanno affrontate le reali ragioni che stanno alla base di questi flussi, e ciò significa guardare al motivo per cui le persone fuggono, ciò che impedisce loro di cercare asilo con mezzi più sicuri”. E proprio di questo, molto spesso, la classe politica sia italiana che straniera si dimentica. Si parla di persone, non di numeri, delle loro storie, dei drammi che li hanno costretti a fuggire dalle proprie case portandoli a rischiare la vita, il tutto aggrappati a una flebile speranza.
“Il mare è stata la mia ultima occasione”. Racconta Edwyn, un ragazzo della Nigeria, ora ospite presso l’Hotel Royal Sands Children’s – una struttura della comunità fondata da don Oreste Benzi – di Cattolica (Rimini). La struttura solitamente è un albergo a tutti gli effetti, ma ha aperto le sue porte di fronte all’emergenza profughi. Attualmente ospita 80 ragazzi che, come Edwyn, hanno abbandonato le loro terre per cercare una vita migliore. Edwyn è fuggito dal suo Paese perché “Boko Haram sta uccidendo tutti, sta massacrando intere famiglie, ho lasciato mia madre là ed ora ho paura per lei”. È la situazione che hanno in comune molti dei profughi che arrivano sulle nostre coste: abbandonano le proprie per la guerra, la disoccupazione, o la mancanza di libertà.
Abdullahi è del Senegal, ha lasciato la sua casa per andare a lavorare in Mali, ma lì ha trovato un conflitto e si è rifugiato in Libia. Ha iniziato a lavorare, guadagnava qualche soldo da mandare alla sua famiglia, poi sono iniziati i problemi. Una banda armata in territorio libico, ha rapinato lui e i suoi compagni, li ha picchiati costringendoli a subire ogni tipo di angheria. Abdullahi ha provato a tornare nel suo Paese, ma al confine un altro gruppo di terroristi lo ha derubato e gli ha tolto i documenti.
Non avendo altra soluzione si è diretto sulla costa della Libia e da lì si è imbarcato su una delle carrette del mare. Ha dovuto pagare 1000 dollari per il viaggio. Ricorda ancora la paura di morire, l’orrore di vedere una donna incinta di tre mesi essere buttata in mare perché stava male, il suo sentirsi impotente perché se si fosse ribellato gli sarebbe toccata la stessa sorte. “Non volevo venire in Italia, qualsiasi posto sarebbe andato bene – racconta Abdullahi – vorrei solo poter fare la mia vita, una vita buona, quella che avrei voluto avere nel mio Paese, ma non me ne è stata data la possibilità”.
Una storia tra le tante, uno spaccato di vita che fa riflettere al di là di ogni razzismo e di un certo populismo imperante nel tessuto politico italiano, atteggiamento utile per destabilizzare il Paese e per fare incetta di voti in funzione meramente elettorale. Un modo miope di guardare la realtà, senza capire invece quale ricchezza ci sia in queste storie e quando ognuna di esse ci… “lega” gli uni agli altri.