Da questa parte del mondo le notizie possono sembrare sproporzionate. La Corea del Sud chiede la testa, nel vero senso della parola, di Lee Joon Seok, capitano del traghetto Sewol, affondato lo scorso aprile a causa del sovraccarico di persone e per la cui negligenza morirono 300 ragazzi in gita scolastica. La Procura ha chiesto, con l’accusa di omicidio plurimo e negligenza, la massima pena prevista dalle leggi della Corea del Sud. L’ergastolo per gli altri undici ufficiali. Il capitano coreano sarebbe stato ripreso in un video nel quale si lancia sulla scialuppa di salvataggio in mutande mentre il panico imperversa sul traghetto.
Un abbandono della nave che suggerisce l’inevitabile paragone con Schettino. Fermo restando l’ orribile e incredibile spettacolo della loro fuga in una sfida tesa a dimostrare di non essere all’altezza del ruolo ricoperto, i due navigatori hanno avuto diverse reazioni. L’asiatico, nello svolgimento del processo, ha negato di avere respinto i passeggeri che tentavano di salvarsi, ma ha confessato di essere meritevole della pena di morte. La moratoria presente nella Corea del Sud ha di fatto fermato le esecuzioni che nel paese non avvengono dal 1997. La giustizia che la nostra storia ci ha consegnato non ci conduce a concepire la pena di morte come espressione di condanna neanche negli ambiti più crudeli e lo Stato per i principi cui si ispira non vanta un simile potere.
Il solo fatto che quest’uomo abbia quantificato la sua condanna con la massima pena ipotizzabile non può esimere la pubblica opinione dal riconoscere che in esso sia avvenuto un esame di coscienza. Sul volto di quest’uomo, se non recita, si leggono i segni di una profonda mortificazione che nulla ha in comune con la spavalderia e il ridicolo tentativo di difendere l’ indifendibile del nostro corrispondente italico. Insomma, se a caldo, si potrebbe tentare lo sforzo di immedesimarsi in questi due uomini, giustificando una mancanza di coraggio umano, prescindendo addirittura dai ruoli, dopo tanto tempo ci si attende che sia avvenuta una riflessione che comporti al minimo, un sincero “mea culpa”. Sennò non si è comandanti ma nemmeno semplicemente uomini.