Le vediamo seminude ai margini delle strade, agli incroci, nascoste in qualche anfratto. Spesso, nelle grandi città, le troviamo sui marciapiedi, ultimamente anche nelle aree dei distributori di benzina. Sappiamo che non sono lì per caso, che qualcuno ha deciso che quello è il loro posto. Ciò che non immaginiamo è che oltre ad essere schiavizzate e dover portare i soldi al pappone di turno, debbano anche pagare una sorta di tassa per poter stare in quello spazio. Una sorta di “occupazione di suolo pubblico” i cui proventi però non sono statali, ma sempre dei criminali che le schiavizzano. Pagano per doversi prostituire, è questa l’assurda verità.
Questa triste realtà affonda nel tempo. Già quarant’anni fa, infatti, don Oreste Benzi – fondatore dell’associazione Papa Giovanni XXIII – aveva sollevato il velo su questa situazione. La sua opera di conforto e accoglienza sulle strade, a contatto con queste sventurate, aveva dato la possibilità di scattare una foto dell’esistente molto più nitida di tante analisi statistiche.
Oggi la conferma che nulla sia cambiato arriva da un dossier “Piccoli Schiavi Invisibili” di Save the Children. Vittime sono per lo più le ragazze nigeriane, costrette a pagare un canone che va dai 100 ai 250 euro a settimana. Le adolescenti nigeriane, le più coinvolte nel fenomeno della tratta, giungono nel nostro paese prevalentemente via terra, transitando da Niger, Libia e attraversando poi il Mediterraneo. A convincerle con l’abbaglio di grandi guadagni e il sogno di diventare parrucchiere, modelle o lavorare come babysitter o commesse sono spesso un uomo o una donna chiamati “sponsor” o “trolley”, che le accompagnano fino al paese di destinazione oppure ne organizzano i passaggi di Paese in Paese.
Il loro sfruttamento inizia prestissimo, sin dal transito in Niger. Raggiunta la Libia vengono rinchiuse in guest house dove sono costrette a prostituirsi per mesi prima della partenza per l’Italia. Qui, per coloro che arrivano via mare, la tappa è solitamente Napoli, dove avviene la compravendita delle ragazze che non hanno già una destinazione prefissata. Per quelle che arrivano in aereo invece la meta è solitamente Torino. Le ragazze vengono quindi consegnate a una sfruttatrice nigeriana in loco, la mamam, che da questo momento in poi gestirà le loro vite, stabilendo quando e dove debbano prostituirsi per ripagare il debito contratto dalle famiglie per il viaggio, una cifra fra 30 e 60 mila euro, che vincola le ragazze a prostituirsi per 3-7 anni e a lavorare a ritmi intensissimi e per pochi euro. Se le ragazze si ribellano è la stessa maman a usare violenza fisica e psicologica nei loro confronti, oppure il suo “fidanzato”, come viene chiamato il pappone.
Nella cultura nigeriana è ancora forte la paura per gli sciamani, per i riti magici, e dunque la sola minaccia di utilizzare la magia per far del male alle famiglie di queste sventurate diventa motivo di terrore, al punto da annichilire totalmente la volontà personale. Uno schiaffo alla razionalità, ma drammaticamente vero e attuale.
“Lo sfruttamento e le costrizioni a cui sono sottoposte queste adolescenti sono talmente intense da rendere difficilissima la loro uscita dal circuito della tratta” sottolinea Carlotta Bellini di Save the Children Italia. “E’ necessario rafforzare la rete delle ‘case di fuga’ che sono uno degli strumenti principali del nostro sistema di protezione delle vittime di tratta, stroncare il traffico nei paesi di origine e in Italia intensificare il contrasto all’intero sistema di sfruttamento, anche attraverso le unità di strada. E’ quindi di assoluta necessità l’adozione del Piano Nazionale d’Azione contro la tratta di esseri umani che includa fondi specifici per il supporto ai minori vittime di tratta”.
Le Case famiglia dell’Associazione Papa Giovanni XXIII sono un modello di accoglienza, in questo senso. La costante opera di recupero, proprio sulle strade, iniziata da don Oreste Benzi e oggi proseguita dai membri della Comunità, ha già salvato – tra le tante ragazze – molte nigeriane. Un “miracolo”, per ognuna di loro; una goccia nel mare dell’indifferenza.