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Lo strabismo di Landini

marmo_raffaele-150x150Potenza delle coincidenze e dei paradossi. Maurizio Landini inanella, con la sua Fiom, una raffica di sconfitte sul terreno strettamente sindacale, sconfitte che condurrebbero qualsiasi altro leader sociale di un Paese normale dritto filato alle dimissioni. E invece lui, proprio nelle stesse ore, annuncia dalle colonne del Fatto un’ancora ambigua discesa in campo contro Matteo Renzi, il Jobs Act, la Confindustria, la Fiat, Marchionne, la Troika e ogni altro simbolo del turbocapitalismo.

Lanciare la palla in tribuna, parlare d’altro. Non una parola, non un commento, non una virgola dedicata a quello che più da vicino dovrebbe interessargli: la fuga degli operai dalla sua sigla. Eppure, i fatti hanno la testa dura e s’incaricano da soli di raccontare come stanno le cose. La Fiat torna a assumere a Melfi, sospende la cassa integrazione a Pomigliano e chiama i lavoratori a fare gli straordinari il sabato. La Fiom di Landini che fa? Proclama lo sciopero. Peccato, però, che solo «cinque dipendenti cinque» su qualche migliaio incrociamo le braccia. Una débâcle? Macché, lo sciopero era giusto, sono gli altri che sbagliano.

Non basta. Si svolgono le elezioni per i delegati sindacali delle rappresentanze aziendali negli stabilimenti Fiat del Centro-Sud: a Melfi, a Pomigliano, alla Sevel di Val di Sangro. La Fiom è fuori dalla competizione perché non ha firmato gli accordi con il Lingotto. Ci si poteva attendere che almeno gli iscritti al sindacato rosso si astenessero, votassero scheda bianca, non partecipassero comunque alla partita. Accade, invece, che vota oltre il 90 per cento dei lavoratori e che la Fim-Cisl diventa il primo sindacato in fabbrica, secondi i metalmeccanici della Uil.

Un successo pieno e robusto, di partecipazione e di consenso, per le sigle che pragmaticamente hanno portato avanti in questi anni la linea della trattativa e dell’intesa con la Fiat. Ma, nell’insieme della vicenda, anche una sorta di ritorno al futuro e di metafora dei riflessi pavloviani della sinistra sindacale e politica. Di ritorno al futuro perché un passaggio analogo si ebbe, non a caso sempre in Fiat, nell’elezione delle «commissioni interne» di Mirafiori, a metà dei Cinquanta: la Fiom perse di botto la maggioranza assoluta a favore del sindacato più contrattualista.

Di metafora dello strabismo della sinistra-sinistra, perché, ancora una volta, come fa Landini, si finisce per buttarla in politica: Fiat e Jobs Act, per capirci. Il che può anche starci, se fosse utile a trarre una lezione altrettanto «politica»: che il voto degli operai conta e dà luce anche su quello che potrebbe accadere con il referendum annunciato sulla nuova legge.

Ma non disperiamo: come racconta spesso quel vecchio sindacalista che ne ha viste tante, «prima o poi ci arrivano, magari con dieci-quindici anni di ritardo, ma ci arrivano. Il problema è che non si guardano mai indietro e non contano mai i danni fatti nel frattempo». E’ stato così con lo Statuto dei lavoratori, non votato dall’allora Pci e mal visto dalla stessa Cgil e oggi difeso come fosse una loro conquista. Ma è stato così anche con il decreto di San Valentino sul taglio della scala mobile, contrastato sempre da Pci e Cgil-area comunista fino al referendum dell’85 (clamorosamente perso): salvo poi sostenere che la politica dei redditi aveva salvato l’Italia dalla bancarotta. Manca solo la difesa della Legge Biagi rispetto al Jobs Act e il cerchio è chiuso. Ma, per chi si illude di essere lo Tsipras italiano, torna forse utile il Nenni della campagna elettorale del Fronte popolare del 1948: quello che ammonì sulle piazze piene e le urne vuote. Perché, piaccia o no, come avvisò Tony Blair nel 1995, «values don’t change, but times do», i valori non cambiano, ma i tempi sì.

 

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