E’ la prima intervista ufficiale di Raffaele Bonanni dopo il passo di lasciare la guida della Cisl in anticipo rispetto alla scadenza naturale del 2015, quando avrebbe raggiunto i limiti d’età. Appena concluso l’incarico è stato messo nel mirino di quel solito sistema mediatico italiano che blandisce finché hai il potere in mano e immediatamente dopo sguazza nella melma della maldicenza e dell’approssimazione accontentandosi del verosimile che fa più audience.
E’ accaduto anche a Bonanni con la polemica sulla sua pensione che la Furlan, neo segretario Cisl, ha definito “una vicenda utilizzata in modo speculativo”, spiegando: “47 anni di lavoro in mezzo alla gente, senza sabati o domeniche, e un sistema retributivo che è stata una fortuna per tutta la sua generazione”.
Oggi l’ex segretario generale guarda la situazione italiana con maggior distacco ma non con meno coinvolgimento; anzi, le sue riflessioni entrano nel cuore dei problemi dell’Italia e dell’Europa moderna. E’ orgoglioso di definirsi cattolico, e molte sue riflessioni sono in sintonia col messaggio che papa Francesco appena ieri ha lanciato all’Europa.
Ci troviamo in un periodo innegabilmente complesso e difficile della storia. Cosa ne pensa?
“Quella che viviamo è una crisi entropica, è un tornante della Storia. Non possiamo prevedere l’uso di tecniche o impostazioni uguali a quelle di altre emergenze; c’è bisogno di soluzioni radicali. Per utilizzare un paragone, mi viene in mente il crollo dell’impero romano, anche quello per crisi entropica. Non accadde come si ritiene per l’effetto di colpi o assalti esterni, così come non è vero che la crisi economica europea sia figlia di questi ultimi sei anni. Viene da molto più lontano. Basti vedere i dati economici; la decrescita nell’ultimo quarantennio ha visto la perdita di un punto ogni decennio. Erano piccoli sintomi: come una costruzione che ha i primi scricchiolii nei basamenti, nei punti di sostegno, e poi naturalmente crolla. Noi già da 40 anni avevamo i segni di un lento progressivo declino”.
Dunque questa crisi si poteva fermare per tempo?
“Dietro quei numeri c’era il degrado morale, la perdita di senso di ogni cosa che regola la vita di un corpo pubblico. La piattaforma su cui poggiava era ormai sfarinata, e questo basamento non può che essere quello morale e spirituale. Non è una questione di cosa si poteva fare, ma di come.
La politica si è rivelata inerte e distratta?
La politica non è altro che l’immagine riflessa e in certi casi distorta di ciò che sono i cittadini. Trent’anni fa nessuno avrebbe mai accettato che l’Italia avesse avuto leader come quelli attuali, senza partiti, solo con comitati elettorali, senza capacità di gestire l’economia, solo populismo. E invece oggi è così. Esistono elementi e realtà che non si ritrovano in tutto questo, e sono spaesati; però se il sistema è questo, tutto diventa espressione del disordine che c’è nella testa dei cittadini. Che sono dentro quella crisi di senso di cui parlavo prima. Oggi come ai tempi dei romani crolla il sistema civile; una situazione non solo italiana, ma europea”.
Prima ha detto che c’è bisogno di soluzioni radicali. Cosa intende?
“Anche per rispondere a questa domanda mi rifaccio all’epoca della caduta dell’impero romano, e più specificamente agli atteggiamenti del mondo cristiano. Ce ne furono due differenti: da una parte chi come Girolamo si rifugiò nel deserto a pregare, pensando che la caduta di un sistema che reggeva il mondo da circa 500 anni ne preludesse la fine. Ci fu però anche un rivoluzionario per l’epoca, Benedetto. Non solo fondò un numero sterminato di monasteri nei posti più sperduti facendoli diventare dei centri di cultura e di rilancio dell’iniziativa delle persone – che pure fu molto importante in un momento di sbandamento – ma lanciò una sfida, contraddicendo fortemente anche quella parte di cristiani che pensava fosse opportuno solo aspettare facendo penitenza”.
Una svolta fondata sui valori cristiani?
“Benedetto disse che bisognava pregare ma anche lavorare, il famoso motto “ora et labora” diventò la bussola, la direzione tracciata per ridare senso alla vita comunitaria. All’epoca pregare per un cristiano era importante, ma lavorare nella tradizione era una cosa che spettava agli schiavi, non era per le persone colte, libere e spirituali. Fu una vera svolta, una prospettiva radicalmente nuova che offrì un modo per colmare il fosso dello sbandamento generale. Una nuova idea di società fondata sul lavoro di tutti, portandolo ad essere l’elemento costitutivo”.
Quando parla di lavoro intende l’opera che ciascuno deve fare oppure il diritto ad avere un posto dignitoso?
“Una buona economia ordinata, che è la nervatura del funzionamento della società, deve fondare non solo sul lavoro, ma sul buon lavoro. Negli ultimi 20 anni il lavoro è stato fortemente svalutato, anzi già da prima perché il taylorismo e fordismo hanno negato la possibilità di fare un’opera dando agli uomini solo una mansione: fai quella vite, quell’ingranaggio anche se poi non sai a che cosa serve. Prima del fordismo e taylorismo la figura del lavoro più importante era quella dell’artigiano, cioè il “maestro” che sapeva progettare ed eseguire ogni pezzo che portava all’opera, e aveva pieno dominio. L’uomo quando compie un’opera e ne è pienamente consapevole raggiunge il cielo, la spiritualità, perché riesce a collegarsi con l’elemento più vero della vita umana, e cioè il fatto che noi siamo nati per lavorare, perché attraverso le opere che realizziamo siamo strumento del Signore e manutentori del creato, diventiamo la mano di Dio”.
Abbiamo fatto diversi salti temporali nel passato. Ma oggi?
“A tutto quello che ho detto si è aggiunto ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio, col mito del consumismo e della finanza; che assomiglia per certi versi alla descrizione fatta da Collodi in Pinocchio, quando affresca il gatto e la volpe che invitano a seppellire monete d’oro nel campo dei miracoli promettendo chissà cosa solo per appropriarsene. Ecco la realtà della finanza: truffaldina, tentatrice e disgregatrice; che promette di guadagnare senza sudare, senza progettare, seguire e completare l’opera; ma senza tutto questo, il lavoro che valore ha?!
Non è un caso se le legislazioni hanno da tempo fortemente svalutato il lavoro; poi sentiamo illustri commentatori prendersela con le persone, ma queste non fanno altro che nutrire il proprio cuore attraverso i miasmi negativi che vengono da una devianza culturale e spirituale. Che cosa vuoi che uno sia sensibile se tutto ciò che hai costruito prima, porta all’insensibilità?”
Lavoro senz’anima? Si chiama sfruttamento…
“Non dico che siamo tornati allo schiavismo, ma certo oggi si lavora non per il bisogno di sublimare le nostre aspirazioni ma solo “per” bisogno, come strumento per far fronte alle esigenze quotidiane e solo a quelle. La vocazione dell’uomo è quella del lavoro che gli permette di collegarsi al cielo. E’ lì che bisogna ritornare”.
E il mondo della finanza in questo contesto dove si colloca?
“La finanza deve tornare sotto il dominio della democrazia, non può essere il potere dei poteri che si autoregola; e c’è bisogno di creare istituzioni e leggi di sostegno al lavoro per dare responsabilità ai lavoratori-cittadini che attraverso la propria opera ristabiliscano le comunità e quindi l’economia.
Penso a ciò che i costituenti avevano disegnato nella Carta, i cattolici in particolare, nell’articolo 46 della Costituzione che dava piena possibilità del lavoratore di partecipare alle scelte importanti. Come al solito arriviamo primi nel pensiero e poi ultimi nell’opera”.
A che si riferisce?
“I tedeschi ci hanno soffiato l’idea e attraverso la partecipazione dei lavoratori alle scelte delle imprese hanno fatto del loro Paese l’esempio industriale per eccellenza. E questo lo dico in particolare ai detrattori del confronto e della concertazione. Non è solo un fatto economico che pure è importante, ma è il sistema per costruire a tutto tondo la responsabilità di ognuno, perché quando una persona partecipa ai processi di decisione aumenta il proprio impegno”.
Da soli ce la possiamo fare?
“Io sono un europeista convinto, e penso che uno dei mali che scontiamo è proprio quello di non essere riusciti ancora a fare l’Europa unita, così come il Pontefice ha sottolineato ieri a Strasburgo. L’unica operazione da fare è quella degli Stati Uniti d’Europa, tornando alla cultura sociale che è alla base dello sviluppo del Vecchio continente; senza infrastrutture sociali noi creiamo ancora più alienazione tra gli uomini, e non costruiamo un futuro”.
Per farlo c’è bisogno di cambiare una mentalità molto radicata, un pessimismo imperante…
“Bisogna lavorare per preparare le persone, consapevoli della loro missione, coltivare la costruzione di isole profetiche. E su questo vale la pena impegnarsi: preparare le persone a navigare nel mare della democrazia. L’unica realtà profetica che sottolinea questo aspetto è la Chiesa cattolica, con le sue encicliche, che non a caso non vengono utilizzate fino in fondo perché dentro ci sono i germi della rivoluzione”.
Cosa le ha lasciato l’intervento del capo della Cristianità al consesso europeo di Strasburgo?
“Sensazioni importantissime e profonde. Il suo discorso sul lavoro, definito l’ambito in cui fioriscono i talenti della persona umana, mi ha molto colpito. Lo ha detto il Papa: è tempo di favorire le politiche di occupazione, ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro, garantendo anche adeguate condizioni per il suo svolgimento. D’altra parte favorire un adeguato contesto sociale, eliminando lo sfruttamento delle persone, assicura la possibilità di costruire una famiglia e di educare i figli”.
Chi si aspettava un Bonanni “pensionato” è fuori rotta: l’ex segretario della Cisl è in piena salute, motivato e con grandi progetti utili alla crescita sociale di una nazione. La questione del lavoro, tanto cara al leader del sindacato, resta tutta aperta; e la domanda alla quale il mondo deve dare risposta, l’ha pronunciata proprio Francesco: “Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, il lavoro che lo unge di dignità?”