Escono di notte, come i topi. E così vengono considerati. Nessuno ci deve parlare, vietato relazionarsi, addirittura non devono essere visti. Per vivere rovistano nei cassonetti della spazzatura dove raccolgono gli avanzi di cibo e qualche cencio. Sono considerati impuri, al punto che non possono recarsi neanche nei tempi a pregare. Chiunque dovesse entrare in contatto con loro – per legge – deve immediatamente lavarsi le mani; possono contaminare i “puri” anche solamente con lo sguardo o se la loro ombra dovesse sfiorarli.
Non è la descrizione manzoniana dei monatti, ma la crudele realtà che centinaia di migliaia di persone vivono nell’India di oggi. Formalmente libera dai pregiudizi (il 26 gennaio 1950 è entrata in vigore la Costituzione indiana che dichiara che tutti i cittadini hanno eguaglianza di status, di opportunità) la patria di Ghandi è rimasta ancora abbarbicata al concetto di casta: tu sei ciò che la tua nascita di consente di essere, senza alcuna possibilità di elevare lo stato sociale. Fa riflettere ciò che accade sulle rive del Gange, dove diventa esplicito ciò che in altre parti del mondo accade ugualmente, mascherato però da democrazia. Non a caso la parola “casta” ha assunto un significato preciso nel mondo occidentale, lo stesso che sta rimpiombando nel pozzo senza fondo del razzismo. Per non parlare delle cosiddette guerre di religione, dove si uccide solo perché l’altro è diverso.
L’India dunque non è un’eccezione, ma la proiezione visibile di ciò che in questo momento è uno dei mali del pianeta. Nel Paese del Mahatma però – va detto – ci sono motivazioni storiche. Le caste esistono da oltre 2500 anni e, nonostante non abbiano più valore giuridico, sono il perno della società culturale e religioso. L’origine delle caste risale al secondo millennio avanti Cristo, quando gli arii (o indoeuropei) arrivarono nel territorio, ma l’istituzione del sistema castale avvenne gradualmente intorno al primo millennio a. C. quando venne codificata la distinzione fondamentale, in ordine gerarchico, tra Brahmani (sacerdoti), kshatrya (guerrieri), vaishya (mercanti e artigiani) e shudra (servi). Ognuna di loro è chiaramente indicata da un “varna” (termine sanscrito che significa colore) con il quale vengono marcate in maniera molto evidente le differenze, le limitazioni, i diritti e i doveri. A queste si aggiungono i “fuori-casta”, solitamente indicati come paria o intoccabili: sono coloro che non hanno nessuna estrazione sociale per la spregevolezza della loro occupazione o perché hanno perso – violandone le norme – l’appartenenza alla casta e con essa i diritti sociali e i ruoli della ritualità religiosa.
Non solo le caste continuano ad esistere, ma con il passare del tempo si sono frammentate, favorendo così la creazione di sub-caste regolate da norme altrettanto rigide. Esistono poi gli “invisibili” (i fuori casta e gli shudra) così fuori dal sistema gerarchico che nonostante tutte le leggi e le promesse dei vari governi indiani che si sono succeduti, sono spesso oggetto di abusi e vessazioni. Come la storia di una donna, appartenente alla comunità di cacciatori di serpenti, violentata di notte sul piazzale della stazione di Madurai, sempre pieno di gente che dorme all’aperto. Il giorno seguente si è recata alla polizia per denunciare il suo stupratore; quest’ultimo, dopo averlo saputo è tornato da lei accusandola di non avere il diritto di denunciarlo, quindi l’ha uccisa colpendola in testa con un pietra e poi se ne è andato, sotto gli sguardi impotenti di chi in quel momento era vicino a loro; uno schiaffo alla legalità. Solo grazie all’intervento di una delle organizzazioni non governative che operano sul territorio e che come scopo ha quello di promuovere lo sviluppo sociale ed educativo dei nomadi, l’uomo è stato assicurato alla giustizia e punito.