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LE PAROLE CHE UCCIDONO LE DONNE

“Se l’è cercata”, “la minigonna era troppo corta”, “non doveva uscire sola così tardi”, “forse era consenziente, poi avrà cambiato idea”. Parole che fanno male forse più della violenza subita, con cui Maria (il nome è di fantasia) ha imparato a convivere troppo presto. A Melito (Reggio Calabria) ha conosciuto prima il dramma dello stupro e poi quello dell’ignoranza di alcuni suoi concittadini.

Aveva 13 anni quando alcuni alcuni ragazzi più grandi, tra i quali il suo “fidanzato”, l’aspettavano all’uscita di scuola per portarla a “fare un giro in macchina”. Con la scusa di un gelato e di due chiacchiere la trascinavano ogni giorno in luoghi isolati – un bosco, nel vecchio cimitero, ovunque ci fosse silenzio e desolazione – per poi violentarla a turno, ripetutamente, spesso costringendola con la forza oppure facendo leva sulla sua fragilità psicologica. La stessa che caratterizza ogni bambina o adolescente senza una guida. “Ma che non sei capace?” le chiedevano quando iniziava a piangere, per la paura e la vergogna. “Guarda che se racconti qualcosa in giro facciamo vedere a tutti le foto”, la minacciavano se provava a ribellarsi. Poi la lasciavano in un angolo e le forzavano a rifare il letto. L’ennesimo schiaffo, l’ultima sofferenza della giornata.

Gli abusi sono andati avanti per 3 anni, poi Maria ha deciso di uscire da questo tunnel di violenza. Una mattina, su insistenza dei suoi insegnanti che avevano finalmente capito cosa si nascondesse dietro quel corpicino magro e gli occhioni tristi, è andata dai carabinieri e ha denunciato gli stupri subiti. Ha raccontato tutto: i polsi legati, le oscenità, il lettino sporco sul quale le veniva tolta l’ultima briciola di dignità umana. “C’era la coperta rosa – ha confessato la ragazza alla psicologa – e non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare, ma mi veniva da piangere e mi sentivo uno schifo”.

Quella che emerge, però, è anche una verità scomoda e dolorosa, fatta di omertà, vergogna, ignoranza e indifferenza. I genitori sapevano tutto. O almeno immaginavano quale calvario stesse passando la figlia. Tuttavia, hanno preferito tacere e fare finta di nulla. Per tre anni. Peggio hanno fatto solo alcuni suoi compaesani che, una volta saputa la notizia, l’hanno accusata pubblicamente di essere una ragazza “facile”. Meglio infierire sulla vittima che punire i colpevoli, magari figli di amici, famigliari o, peggio, per chi abita a quelle latitudini, di un noto boss locale.

La storia di Maria non è un caso isolato: troppe donne, dopo aver subito abusi, vengono paradossalmente trattate come se fossero colpevoli. Pochi giorni fa, a Rimini, una 17enne è stata violentata nel bagno di un locale mentre era in compagnia delle sue migliori amiche. Invece di difenderla e salvarla, le giovani hanno ripreso lo stupro con il telefonino e pubblicato il video sui social media. Le risate in sottofondo, le battute e l’intera scena sono state viste da migliaia di persone, compresa la vittima, che il giorno dopo ha deciso di denunciare tutto ai carabinieri. Ma questo non può cancellare il trauma subito.

A Napoli, invece, una 31enne si è tolta la vita dopo aver vissuto anni di sofferenze e vergogna, anche lei vittima delle violenze e dell’insensibilità di chi le stava accanto. La giovane, qualche anno fa, era finita a sua insaputa in un filmino “hard” registrato dall’allora fidanzato. Inutile il tentativo di far rimuovere il video online: ormai per buona parte del paese, Tiziana era una poco di buono che meritava di essere giudicata. Si è impiccata col suo foulard, nello scantinato di casa sua. Vittima, pure lei, di diversi carnefici.

Spesso, denunciano le associazioni che tutelano le donne, sono gli stessi media a enfatizzare morbosamente alcuni aspetti delle storie, incentivando l’opinione pubblica a sparare a zero sulla vittima di turno. A ferire la dignità di queste persone, in molti casi, è anche l’assenza di supporto da parte delle Istituzioni, che avrebbero il dovere morale – e giuridico – di schierarsi dalla loro parte, ma che troppo spesso non condannano apertamente gli episodi di violenza. E così la società – senza farsi troppi scrupoli – si volta dall’altra parte.

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