“Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte”. Il 1984 immaginato da George Orwell è arrivato. Ha visto la sua prima alba con la nascita dei social media, lì dove il confine tra vero, verosimile e falso si fa sempre più labile. Centinaia di contenuti si alternano sui nostri schermi. Sollevano questioni di stretta attualità, ma ponendo l’accento su aspetti che, se non sono rilevanti ai fini della cronaca secca, lo diventano per chi legge. Oppure inventano di sana pianta notizie allo scopo di veicolare un particolare messaggio.
Nei canali virtuali naviga di tutto: dall’orrenda equazione migranti uguale Isis alla bufala sul paventato (e poi smentito) sostegno di Papa Francesco a Donald Trump nelle ultime elezioni americane. Senza dimenticare il complottismo: stranieri che rubano posti di lavoro, malefatte di ogni genere attribuite a questo o a quel politico, sino a Ufo, scie chimiche e discutibili estremismi alimentari. Ciò che un tempo veniva scritto in saggi di terz’ordine relegati negli scaffali nascosti di qualche piccola libreria oggi gira liberamente online. E influenza un’ampia fascia della popolazione. Orientandone le scelte, anche in ambito politico.
Un esempio su tutti: la Brexit. Secondo un articolo recentemente pubblicato sul The Economist la vittoria del “Leave” sarebbe stata, tra le altre cose, favorita dalla rapida diffusione sul web di dati falsi. Ad esempio i 350 milioni di sterline che il Regno Unito pagherebbe ogni settimana all’Unione Europea. Un fatto inventato che, però, ha scatenato l’indignazione di milioni di utenti. Commenti, condivisioni e tag sono fioccati, rendendo ancor più virale il “fake”. Esperti e analisti si sono sgolati per smentire questa e altre bufale, senza però ottenere i risultati sperati. Nella società 2.0, del resto, l’autorevolezza non viene più valutata in base alle competenze. Anzi, medici, giornalisti, istituzioni e docenti sono essi stessi considerati parte di un sistema da abbattere. Sembra di tornare a Goebbles: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.
Nell’era della Post-truth (così l’ha definita l’università di Oxford, promuovendola a parola dell’anno) si cercano sul web risposte facili ai problemi quotidiani, come la sicurezza. E chi fornisce una risposta accettabile viene considerato affidabile. Così assistiamo a post xenofobi diffusi da utenti collegati a questa o a quella forza politica anti immigrazione che pubblicano notizie di cronaca al solo scopo di sottolineare la nazionalità del responsabile di un omicidio, di una violenza o di un furto. In questo modo il fatto in sé perde valore, mentre lo acquisisce la circostanza che venga commesso da un migrante o da un rom. Uno schiaffo all’etica dell’informazione e, quindi, alla stessa libertà di stampa. Un lavaggio del cervello in piena regola che ci rende sempre più diffidenti nei confronti di chiunque venga percepito come “diverso”.
Dopo l’elezione di Trump, accusato da più parti di aver cavalcato la Post-verità per acquisire consenso, il caso della diffusione di notizie artefatte su internet è diventato centrale nel dibattito pubblico. Lo stesso Mark Zuckerberg – il quale in passato aveva minimizzato sostenendo che su Facebook solo l’1% di post poteva essere qualificato come bufala – è dovuto correre ai ripari. “Abbiamo fatto molti progressi ma c’è ancora tanto lavoro da fare” ha detto. L’azienda californiana sta studiando contromisure sempre più efficaci, tra le quali figurano algoritmi in grado di individuare le fake news, e sistemi che agevolino le segnalazioni da parte degli utenti. Il ceo di Fb ha preso in mano la situazione i prima persona, specie dopo le accuse di aver favorito, indirettamente, l’ascesa di Trump alla Casa Bianca, per non aver monitorato attentamente tutti i contenuti pubblicati dagli user del social network. A far deflagrare il caso è stato un post contenente la falsa notizia (riportata da un fantomatico quotidiano online chiamato Denver Guardian) della morte sospetta di un agente dell’Fbi (inesistente) coinvolto nell’Email Leaks, lo scandalo che ha coinvolto Hillary Clinton.
Lo stesso problema affligge anche Twitter e Google. Sia il social dei 140 caratteri che l’azienda proprietaria del più grande motore di ricerca al mondo sono state tirate in ballo per le stesse omissioni nelle verifiche interne. E puntano a individuare e rimuovere i contenuti taroccati attraverso la cooperazione tra tecnologie informatiche e appello alla responsabilità degli internauti. Va tenuto conto, fra l’altro, che molti siti specializzati in bufale fanno girare contenuti potenzialmente virali per ottenere sempre più clic. In questo modo ottengono cospicui incassi dalla pubblicità, bypassando le funzioni a pagamento che social e motori di ricerca prevedono per chi voglia auto promuoversi sui loro canali. Insomma, il ragionamento non è solo etico ma anche economico. E chissà che quello del contrasto alla Post-verità non diventi uno dei pochi casi di convergenza tra business e rispetto dei principi di un’informazione vera e corretta.