“Mare Nostrum”. Quante volte abbiamo sentito il nome di questa operazione, tra polemiche, critiche, ovazioni. Il tutto accompagnato da una serie di numeri: 366 morti un giorno, 50 un altro, 280 il seguente, oltre alle centinaia di dispersi di cui si sente ad ogni telegiornale. Migliaia i marinai e i militari impiegati, decine di migliaia i profughi che disperati hanno raggiunto le coste della Sicilia. E’ proprio dietro questi dati, quasi asettici, che ci sono delle storie, degli incroci strani del destino, come quella che ha portato il marinaio italiano Uriele a diventare padrino di battesimo di Yosief, piccolo eritreo nato sulla nave anfibia San Giusto.
Occorre partire da lontano, da Asmara, in Eritrea, dove il giovane Amanuel era stato costretto a salutare la madre, senza sapere se l’avrebbe mai rivista, per seguire i militari. Lo Stato infatti gli stava chiedendo un numero di anni imprecisati per onorare l’obbligo di servizio di leva permanente, come tutti i ragazzi e le ragazze compresi tra i 18 e i 40 anni. Era diretto a Sawa, una base al confine con il Sudan. È lì che ha incontrato Yosief, un ragazzo come lui che gli propone la fuga, attraverso il Sudan, la Libia, per cercare fortuna in Europa. Dopo i primi tentennamenti – Amanuel non sapeva se poteva fidarsi del nuovo amico o se lo avrebbe venduto alle autorità – decidono di scappare dal campo militare.
Così una notte hanno iniziato a correre più forte che potevano nel deserto. All’alba si fermarono perché i disertori in Eritrea vengono uccisi a vista. Così in due notti di corsa sono riusciti a raggiungere il campo profughi di Wedi Sherife, dove venivano ospitati gli esuli provenienti da tutta l’Africa Sub-Sahariana. Salvi. Forse. Le condizioni del campo erano disumane: non c’erano tende, tutto era polveroso e sporco, l’acqua poteva mancare per giorni. Il cibo era scarso e di pessima qualità, i pochi medici e il poco personale sanitario non riuscivano a tenere lontana la morte.
I due ragazzi non sapevano che l’inferno vero li stava aspettando, insieme ai loro demoni: i Rashida,
La traversata aveva regole ben definite: dovevano presentarsi al “punto di incontro”, aspettare che si raggiungesse il “giusto numero di persone per partire”, pagare a ogni sosta chiunque glielo chiedesse per riuscire a rimanere in vita, per un totale di circa 3.000 euro. Alla fine riuscirono a raccimolare tale somma e partirono, stipati in 50 in un pick-up, attraverso il deserto. C’era chi sveniva, chi cadeva dal mezzo, chi vomitava, ma gli autisti non si fermavano mai, per nessun motivo. Per le donne era riservato anche un “trattamento speciale”: la sera, quando si fermavano, venivano violentate a turno dai trafficanti di esseri umani. Nessuno poteva intervenire, pena la morte.
Arrivarono così a Tripoli, e cercarono un dallala, ovvero un eritreo senza scrupoli che vive organizzando la traversata del Mediterraneo dei suoi connazionali. Anche qui non fu difficile. Ci vollero però altri mesi per accumulare i soldi per la partenza, in cui vissero nascosti perché in Libia i neri subsahariani non sono visti bene. Ma ormai il più era fatto, Tripoli: l’ultima tappa per la libertà. Qui conobbero anche la bella Tighist, di cui Yosief si innamorò, iniziando subito una storia, e suo fratello Kofi. Anche loro avevano vissuto la stessa epopea, le stesse sventure, avevano patito la fame, la sete, i soprusi, le umiliazioni. Partirono insieme per raggiungere le coste italiane, stipati all’inverosimile su due pescherecci. Tighist e Amanuel riuscirono a salire su una barca, Kofi e Yosief furono costretti ad andare sull’altra: la stessa che nel mare grosso di quella notte è stata ribaltata dalle onde, uccidendo tutti i suoi passeggeri. Per i due sopravvissuti fu tremendo rimanere, era come se avessero perso di nuovo la loro famiglia. L’incerta navigazione su cui erano fu tratta in salvo da un mercantile, che li riportò in Libia.
L’accoglienza sulle coste non fu delle migliori: i militari iniziarono a picchiare tutti indistintamente, prima di stiparli in altri camion diretti nel carcere di Misurata. L’ambiente non era troppo diverso da tutto ciò che avevano vissuto finora: violenza, corruzione, stupri. 700 persone vivevano così in un luogo che potevaaccoglierne al massimo 200, dormivano a terra su stuoie, senza servizi igienici, mangiavano solo una brodaglia una volta al giorno. A meno che non si riuscisse a mettersi in comunicazione con i propri familiari: attraverso l’hawaladar (un sistema clandestino di scambio di denaro, che arriva anche in carcere) i detenuti potevano farsi mandare soldi per comprare non solo un po’ di cibo extra, ma anche la propria libertà. È così che Amanuel decise di prendersi cura di Tighist, caduta in una brutta depressione dopo la morte del fratello e del fidanzato. La seguiva ovunque, la aiutava, la proteggeva dai soldati. Dopo qualche mese la ragazza è riuscita a riprendersi e ha rivelato la grande verità: è incinta di Yosief. Insieme decidono che questo bambino dovrà nascere libero, lo devono alla memoria dei loro cari che hanno perso la vita nel Mediterraneo. Allora hanno iniziato ad accumulare insieme la somma per partire, che è arrivata al nono mese di gravidanza. Nonostante il pericolo hanno deciso di partire lo stesso: il piccolo non nascerà schiavo.
Si imbarcarono a Zuara, su un gommone, diretti in Sicilia. Dopo le prime ore di navigazione buona il mare è tornato a ingros
Il medico di bordo, la dottoressa Manisco, ha fatto nascere allora il piccolo da uomo libero che i due hanno deciso di chiamare Yosief, in onore di suo padre scomparso tra le onde del Mediterraneo. Subito a bordo il battesimo, per il quale don Marcello scelse il marinaio italiano Uriele come padrino, uomo a cui il destino aveva tolto la famiglia in un incidente d’auto. Proprio il piccolo Yosief è riuscito, con il solo miracolo della sua nascita, a unire tante storie e a lasciare un indelebile segno sulle vite di chi ha incrociato.
Liberamente tratto da “Il mare tra le terre”, di Donatella Corridore, edizioni “in edibus”
Immagine della nave San Giusto tratta da “il crotonese.it”