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La scarpa di suor Marije contro il regime

Spesso siamo portati a credere che solo i grandi gesti possano cambiare la nostra società. Un pensiero, questo, frutto della libertà di cui godiamo. Libertà di disporre delle nostre risorse, di pensare e di credere. Eppure esistono momenti storici, luoghi, persino giorni in cui tutto questo non è possibile. Situazioni nelle quali il coraggio si manifesta attraverso atti all’apparenza piccoli ma in grado di spezzare il giogo dell’odio. La storia di suor Marije Kaleta potrebbe riassumersi in questa riflessione.

Provate a immaginarla questa donna, costretta a nascondersi, persino a spogliarsi del velo, per sopravvivere al regime comunista che per 50 anni ha tenuto l’Albania sotto ai suoi piedi. Una dittatura crudele che nel folle tentativo di omologare i pensieri ha cercato di polverizzare ogni coscienza, perseguitando, torturando e uccidendo migliaia di cattolici, ortodossi e musulmani. Provate a immaginarla mentre cammina tra le macerie delle chiese e dei campanili, distrutti in omaggio alla cieca ideologia dell’ateismo di Stato che tante, troppe, nazioni dell’est Europa hanno dovuto conoscere in quel lungo periodo. Provate, infine, a immaginarla ferma, a leggere o ad ascoltare il feroce motto: “Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo”.

Cosa vuol dire custodire la fede quando credere è considerato un reato perseguibile con la morte? E’ una domanda a cui dare una risposta, nella nostra società basata sulla libertà di coscienza, è difficile, se non impossibile. Per suor Marije (che oggi è un’85enne di straordinaria lucidità) significava andare avanti, nonostante tutto. “Quando ci ripenso – ha raccontato domenica scorsa al Papa – mi sembra incredibile come abbiamo potuto sopportare tante terribili sofferenze, ma so che il Signore ci ha dato la forza, la pazienza e la speranza”.

Già, la speranza. La stessa serbata in cuor suo dalla giovane mamma che la chiamò e la raggiunse di corsa un giorno per chiederle di battezzare la bimba tenuta tra le braccia. La donna era la moglie di un comunista. Inutile girarci intorno, in un Paese in cui la metà della popolazione collaborava con la Sigurimi, la polizia segreta albanese, il rischio che si trattasse di un tranello esisteva eccome. Marije le disse che non sapeva dove attingere l’acqua per il sacramento. La madre, però, insisteva. In quell’istante si compì un autentico miracolo. Marije guardò la donna e, senza sapere come, capì la bontà delle sue intenzioni. “Vedendo la sua fede, mi tolsi la scarpa, poiché era di plastica, e con quella presi l’acqua da un canale e battezzai la bambina”.

L’immagine di una suora in fuga dall’orrore che inaugura la vita cristiana di una neonata usando una calzatura lascia senza fiato. Essa racconta la drammaticità di quegli anni, il clima di terrore vissuto dai credenti e il martirio di migliaia di persone, spesso consegnate al boia da amici e parenti. Ma nello stesso tempo ci mostra valori come il coraggio, la fiducia nel prossimo, e quella solidarietà che è frutto della speranza in un domani migliore.

Oggi l’Albania è cambiata, diventando, come l’ha definita il Pontefice, un modello di convivenza pacifica tra etnie e religioni diverse. E non a caso è stata scelta da Francesco come prima nazione europea cui recare visita dall’inizio del suo ministero. La vicenda di suor Marije, e quella dell’intero popolo albanese, sono dunque uno schiaffo a chi pure in questo tempo continua a uccidere per subdoli interessi. E un messaggio a tutti i sofferenti del pianeta: l’intolleranza e la repressione possono essere sconfitte. Anche solo affidandosi all’immensa forza dell’amore e della fede.

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