La Festa della Mamma è occasione per rispolverare un antico aneddoto foriero di riflessioni su un tema attuale. Un giorno la matrona romana Cornelia, vedova da diversi anni, davanti a un’altra donna che ostentava pietre preziosi, non si sentì in soggezione e con orgoglio disse che i suoi “gioielli” erano i figli Tiberio e Caio.
Patrimonio d’amore
In effetti la prole rappresenta per una madre d’ogni tempo e d’ogni latitudine un patrimonio d’amore incommensurabile rispetto alle ricchezze materiali. Ma non solo. Al giorno d’oggi, nell’Italia della recessione economica, della diminuzione dei giovani, dell’assenza di misure che favoriscano la maternità e della cultura narcisistica individuale, un figlio rappresenta anche un onere economico non indifferente.
Crollo demografico
Sembra un bollettino di guerra il resoconto dell’Istat sugli “Indicatori demografici 2016”. Se ne evince che lo scorso anno “la popolazione italiana ha perso ottantaseimila residenti”, che “la natalità ha stabilito un nuovo record al ribasso nella storia del Paese”, che il saldo naturale (nascite meno decessi) “è negativo e rappresenta il secondo maggior calo da circa un secolo”.
Non si è trattato certo di un fulmine a ciel sereno. In otto anni, infatti, l’Italia ha avuto circa centomila nati in meno (-18% tra il 2008 e il 2016). L’Istat sottolinea come le 474mila nascite del 2016 costituiscano un nuovo record al ribasso, dopo quello del 2015 (486mila nati).
Senza futuro
Tante parole sono state spese su questo tema negli ultimi anni. Il rigido inverno demografico sembra aver ridestato l’Italia dall’idea per cui la nascita di un figlio sia un fatto privato. Ci si è accorti finalmente che le nuove generazioni sono un bene comune, che il calo della natalità costituisce l’anticamera di un futuro senza più giovani, ossia privo di forza lavoro e di previdenza sociale. Le culle vuote sono dunque l’anticipazione visiva di un Paese grigio e paralizzato.
Non solo crisi
Molti spiegano questo vuoto con la crisi economica. Si tratta di una lettura vera, ma solo parzialmente. Recenti tendenze testimoniano infatti che il calo della fecondità si è diffuso anche laddove si è risentito meno della recessione degli ultimi due lustri. Per restare entro i confini nazionali, è utile prendere in esame un recente documento dell’Irpet (Istituto per la programmazione economica della Toscana), dal quale emerge che tra 2008 e 2015 la Regione che ha registrato il peggior calo demografico è la Toscana, con una diminuzione di nascite del 18,2% contro una media nazionale del 15,8%.
Proprio la Toscana è però anche la Regione con il tasso più alto di donne cosiddette emancipate e ricche: rispetto alle altre connazionali sono mediamente più istruite, più laureate in discipline scientifiche e tecniche, più lanciate nel mondo del lavoro. Pertanto una lettura solo economica della crisi demografica non è da ritenersi esauriente.
Va detto allora che il drastico calo delle nascite degli ultimi otto anni affonda le sue radici nei decenni passati. La denatalità galoppante riduce di generazione in generazione il numero delle potenziali mamme. La maggior parte delle donne in età fertile oggi, sono quelle nate negli anni ottanta e novanta, quando la fecondità era già in forte calo. Esse in dieci anni sono diminuite di un quinto.
Quadro drammatico
Ne deriva che i pochi figli di ieri sono i pochi potenziali genitori di oggi e che i pochissimi figli di oggi saranno i pochissimi potenziali genitori di domani. Lo scenario è drammatico. Tra qualche anno, quando i nati nel periodo precedente alla crisi demografica andranno tutti in pensione, si prevedono gravi problemi per il sistema di previdenza sociale.
Mentalità
E non aiuta a sorridere la diffusa cultura dell’io narciso che ingabbia molti ormai diventati adulti in una sorte di “sindrome di Peter Pan”. Inutile negare che sullo sfondo del contesto in cui maturano le scelte procreative vi sia un clima culturale che predilige una visione del presente, del tempo libero e del piacere immediato rispetto agli impegni dal carattere indissolubile. È così che molti rimandano la decisione di metter su famiglia, ma le donne che scelgono di diventare madri in tarda età dovranno inevitabilmente fare i conti con le lancette dell’orologio biologico spostate troppo in avanti.
Cosa fare
A fronte delle tante parole spese negli ultimi anni, ben poco è stato fatto per invertire la rotta. Come rilevano i maggiori demografi italiani, i timidi e transitori bonus bebè che la politica ha elargito poco hanno contribuito a persuadere i giovani a diventare genitori.
L’aspetto economico non è il solo ad incidere sulla denatalità, è vero. Ma è altrettanto vero che l’ambiente culturale può modificarsi anche sulla scorta di scelte politiche strutturali. Ecco allora che aiutano a riempire le culle, misure fiscali favorevoli alle famiglie, specie a quelle numerose; servizi per aiutare la conciliazione dei genitori con il lavoro; assegni di natalità non basati sul reddito.
Il modello
Si tratta di interventi costosi e che non hanno un impatto immediato sul consenso, incompatibili con una classe politica che vive di sondaggi e di ciò che l’opinione pubblica desidera qui ed ora. Eppure altrove la strada è stata tracciata. L’Ungheria negli ultimi anni ha innescato un mix di robuste politiche culturali ed economiche per rilanciare il tasso di fecondità. E i risultati si vedono: sono aumentati del 10% i matrimoni in due anni e sono diminuiti i divorzi, in cinque anni sono calati del 23% gli aborti, più bambini sono nati nel 2014 che nei cinque anni precedenti.
È questa la strada da seguire per far sì che sempre più donne italiane possano vantarsi, come Cornelia, di avere nei figli i loro “gioielli” più preziosi. Intanto, per quelle che già ne hanno, buona Festa della Mamma.