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LA DONNA “CAVIA”

Con una bicicletta sgangherata, su una strada piena di buche, Elvira percorreva il tragitto per raggiungere l’ospedale dove si trovava suo figlio nato da pochi mesi con gravi problematiche. Questo accade in Albania, negli anni che anche i suoi stessi connazionali vorrebbero cancellare, chi per la vergogna e chi per dimenticare le proprie complicità con il racket della prostituzione. Gli ultimi ricordi su quella bicicletta, e poi il vuoto più assoluto.

Elvira si ritrova su un marciapiede, rapita da coloro che la renderanno un relitto umano lasciandole come unico desiderio quello di togliersi la vita. Da prostituta non riuscendo a guadagnare il dovuto diventerà in breve tempo la donna-cavia, cioè un oggetto da torturare fino al limite dell’immaginabile per incutere terrore alle nuove schiave del racket, tutte portate in Italia com’era inevitabile dagli anni 90 fino al 2002.

Le urla, il pianto, la disperata richiesta di aiuto ha scoraggiato centinaia di ragazzine albanesi a tradire il proprio padrone. Il magnaccia, il carnefice, viene definito dalle prostitute “il fidanzato” mentre i criminali tra di loro curiosamente si chiamano con l’appellativo di “animale”; agli appartenenti alle forze dell’ordine invece tocca la definizione di “bastardi”.

Un giorno Elvira, lasciata sola per pochi minuti, trova l’occasione di concludere il suo calvario gettandosi dalla finestra. In ospedale resterà per diversi mesi fino ad essere accolta in una struttura protetta dove più volte ripeterà il terribile gesto del suicidio. Passano mesi bui, nei quali scompare dalla sua memoria ogni traccia del passato.

Attraverso le cure riaffiora faticosamente il ricordo della sua famiglia di origine e soprattutto la consapevolezza di essere madre di un figlio che di fatto non ha mai cresciuto. Sopravvive al suo destino cercando quella creatura che non ha mai conosciuto, senza sapere che dall’altra parte del mare c’era un ragazzo che disperatamente stava tentando di trovare la propria mamma. Con questa speranza il bambino per anni ha studiato la lingua italiana (le ragazze sparite in quel periodo erano tutte indirizzate dalla malavita verso la Penisola), e ogni giorno con i nonni, sopra un carretto, percorreva chilometri per chiedere all’Ambasciata italiana a Tirana notizie sulla vita o sulla morte di Elvira. Ogni giorno, per due lunghi anni, senza mai arrendersi.

Queste due vite si sono rincorse, alla ricerca di un’utopia che non si è realizzata: ricostituire la famiglia. Però quella speranza non è stata del tutto vana; un giorno infatti, trovandomi in questura a Pescara, l’ispettore Giovanni Di Persio mi mostra casualmente un bigliettino con scritto sopra il nome e cognome di Elvira. Non potevo crederci e non riuscivo a comprendere come poteva essere possibile, specialmente nel sentirmi porre una domanda: “Puoi vedere se in una delle vostre case-famiglia risulta questa persona?”. Sembrava quasi uno scherzo architettato da qualche collaboratore, e invece quel poliziotto stava realmente cercando le notizie che i familiari di Elvira chiedevano incessantemente. Ma quella donna era rifugiata proprio nella mia struttura; e così avviene il miracolo di un primo contatto emozionante, nel portare ai familiari la foto della giovane vittima per confermarne l’identità. Scoprendo così che anche il ragazzino ormai cresciuto aveva subito l’inclemenza della malattia psichica.

Poi l’incontro, toccante, tra mamma e figlio nella drammatica realtà da accettare, cioè quella di essere stati condannati dal mostro della prostituzione – tollerato dai molti – a non potersi più sostenere l’un l’altro. Uno schiaffo a chi definisce la vita di strada come una “scelta” che porta al benessere.

Quante Elvira sono state annientate dalla perversione criminale degli schiavisti albanesi e italiani, gli uni aguzzini e gli altri clienti? Questo popolo, se non ha dimenticato, perché ha ricominciato a vendere le proprie figlie?

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