La città come infrastruttura critica

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[cml_media_alt id='7132']alessandro_bensi[/cml_media_alt]Le alluvioni avvenute a Genova e in Maremma e i relativi danni causati a persone e cose, purtroppo sono l’ennesimo esempio, in negativo, di come la maggior parte delle città italiane non siano in grado di fronteggiare emergenze critiche, tanto più quelle connesse alle “calamità naturali”. Nel mondo esempi di Nazioni o città metropolitane dalle quali poter attingere informazioni e “copiare”, senza vergogna, il “modus operandi” di corretta gestione di queste cosiddette “emergenze”, ce ne sono vari.

Citerei ad esempio il modello Newyorkese, sottoposto a grandi stress organizzativi per il controllo della sicurezza pubblica. Joseph Bruno, responsabile della sicurezza della cittadina americana, ha descritto, in un dibattito sull’argomento svoltosi in Italia recentemente, un modello di gestione delle emergenze e di prevenzione dei rischi (anche quelli di security sia in fase di crisi che in tempi ordinari) che può considerarsi una buona prassi che passa attraverso il consolidamento della partnership pubblico-privato; il tutto su una municipalità come quella di New York che, per complessità e ampiezza, impone la cooperazione di tutte le forze in campo e un forte coordinamento con l’autorità centrale.

Un risultato non scontato frutto dell’impegno di quindici anni di attività che, sul versante privato, ha ricompreso al suo interno oltre alle cosiddette infrastrutture critiche e alle aziende che erogano public utilities e che devono garantire la Business Continuity, anche altri settori produttivi e comparti. Ciò detto, sappiamo ad ogni modo che una buona prassi nazionale, non può essere replicata e trapiantata tout court su altri territori, specie se di cultura giuridica e struttura istituzionale così differenti (il modello giuridico-culturale italiano è molto diverso da quello di stampo americano/anglosassone e Roma non è una municipalità come New York per cui le prerogative del sindaco, in ciascuna città, sono di conseguenza ben diverse), se non con dovuti accorgimenti e un’attenta operazione preliminare di benchmarking, onde evitare i naturali “rischi di rigetto”.

Un modello, questo Newjorkese, basato sulla partnership “pubblico-privato”, così come rappresentato da Joseph Bruno che viene impiegato in tempi di crisi e in tempi di gestione ordinaria, per fronteggiare e prevenire due tipologie di rischio, sia quello derivante dall’azione umana (direttamente o indirettamente criminosa e non criminosa), sia quello derivante da calamità naturali vere e proprie, (rispetto alle quali, almeno apparentemente, la responsabilità umana non sembra essere chiamata in ballo).

Vero è però che anche rispetto a tali ultimi eventi le responsabilità e l’azione umana possono in ogni caso avere un ruolo importante specie nella mancata prevenzione di eventi comunque prevedibili o riconducibili a monte a fattori umani. Ferma restando la difficoltà nella replicabilità dei modelli esteri nel nostro Paese, un forte incremento della partnership tra pubblico e privato in Italia, potrebbe avere degli effetti positivi sulla gestione e prevenzione dei rischi derivanti da attività antropiche che impattano sul territorio e l’ambiente ovvero nella prevenzione delle conseguenze drammatiche che le calamità naturali possono avere sul territorio stesso.

Sarebbe bene forse introdurre anche una terza tipologia di rischio oltre a quelle da citate. Alle calamità naturali e alle attività criminose è infatti opportuno aggiungere anche i disastri ambientali che sono causati dall’uomo, il quale può certamente influenzare anche quelle che in apparenza sembrano semplici eventi accidentali.
Prendiamo come esempio Roma, una città che presenta elementi di indubbia complessità: è la sede di due capitali, ha una estensione di oltre 1000 chilometri quadrati, presenta corsi d’acqua, zone paludose non bonificate in modo appropriato e una crescita edilizia non sempre armonica. Abbiamo il dovere di conservare in modo efficace una città che ha ventisette secoli di storia e per ottenere questo risultato non servono solamente risorse economiche.

Ma non buttiamoci giù, in Italia abbiamo anche grandi esempi positivi di gestione delle criticità. La risposta offerta durante l’emergenza della Costa Concordia presso l’isola del Giglio rappresenta un esempio paradigmatico. In quella circostanza si è manifestata una grande capacità di coordinamento e di sinergia tra pubblico e privato e si è riusciti a compiere una grande impresa.

Venendo all’attualità invece una grande professionalità è dimostrata quotidianamente nell’attività di intercettamento – che avviene spesso anche in acque non di competenza nazionale – e accoglienza degli immigrati provenienti dall’Africa ammassati in barconi, la quale coinvolge sia strutture pubbliche che Onlus. Come Italia dunque abbiamo tanto da dare, ma forse, in un atto di umiltà, ancora tanto da imparare…

Alessandro Bensi
Consulente della Commissione Ambiente del Senato