In Italia la laurea è sempre stata un traguardo ritenuto importante. Il famoso “pezzo di carta”, seppur svalutato nel tempo, è pur sempre considerato come indispensabile per dare di sé l’immagine di preparazione e competenza. Peccato che spesso i politici trattino quel titolo come carta straccia, da ignorare a seconda delle convenienze di partito, dei favori da fare a questa o quella corrente, degli incarichi “ad personam”. Anche quando la legge parla chiaramente in modo diverso. E così si scopre che l’arroganza è la caratteristica più evidente di un certo modo di fare, che è passato indenne dalla Prima alla Seconda Repubblica, e che sta approdando – purtroppo – alla Terza. Uno schiaffo ai giovani che fanno sacrifici per studiare e alle famiglie che s’impegnano per garantire loro un futuro. Per fortuna là dove non arriva l’etica politica arriva la magistratura, in questo caso quella contabile.
L’incarico più gettonato per fare qualche favore nei Comuni italiani è quello di Direttore Generale, da alcuni detto anche City manager; un professionista, cioè, con specifiche competenze il cui compito sarebbe quello di sovraintendere e coordinare i dirigenti e le strutture organizzative municipali per la realizzazione degli obiettivi prefissati dalla Giunta. Sicuramente dunque una figura di livello, e di fiducia. Peccato però che per assegnare questo ufficio – così come per l’altra tipologia molto usata, quella di Capo di Gabinetto – la legge (art. 90 del Testo Unico degli Enti Locali, TUEL – d.lgs. n. 267/2000) sia chiara: c’è bisogno del “pezzo di carta”.
Ma in Italia, si sa, le leggi spesso vengono aggirate. O almeno ci si prova. Solo che quando a farlo è la casta che amministra i nostri soldi la cosa – diciamo così – da un po’ più fastidio. In Emilia Romagna, ad esempio, tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 sono state diverse le amministrazioni locali “pizzicate” in fallo. Ma non è che nel resto del Paese le cose vadano meglio.
La Procura della Corte dei Conti ha segnalato diversi casi (Sentenze n.3/2015/R, n.165/2014/R, n.155/14/R) nei quali sindaci e giunte comunali hanno deliberato l’assunzione a tempo determinato di personale con incarichi dirigenziali senza che questi avessero i requisiti per poter accettare tali nomine. Tutte posizioni inquadrate nella cosiddetta “categoria D”, cioè quella che percepisce dai 38.000 ai 45.000 euro annui circa. Mica bazzecole.
Soldi della collettività, i quali se è giusto spendere per una professionalità che porti dei risultati in termini di efficienza – e anche qui il capitolo sarebbe da sviscerare, in quanto non esiste un reale metodo per testare gli obiettivi raggiunti, col risultato che spesso vengono elargiti “premi” anche quando i Comuni sono vicini al dissesto finanziario – dovrebbe essere altrettanto pacifico utilizzarli nel rispetto totale delle regole esistenti, in particolare in merito alla trasparenza.
Così non è, purtroppo. Certo non in tutti i Comuni accade questo, ma il fatto che l’organo giurisdizionale della Corte dei Conti sia chiamato costantemente a decidere su questa materia la dice lunga su come ancora oggi vengano considerati i soldi della collettività. Ecco dunque scritto nero su bianco il sistema truffaldino: “erogazione di un emolumento del tutto sproporzionato tenuto conto della qualifica non dirigenziale del posto di capo di gabinetto, nonché nella retribuzione ‘tabellare’ in concreto corrisposta a un soggetto assunto in assenza del titolo di studio necessario per la qualifica di inquadramento. La Procura ritiene vi sia un danno erariale per la mancanza, in capo alla persona assunta, del titolo di studio necessario a rivestire il posto ricoperto e la conseguente retribuzione e cioè il diploma di laurea”.
In questi casi tutti sapevano e nessuno ha ritenuto di fermare lo scempio: “La delibera – scrive la Corte dei Conti in una sentenza – fu assunta a voti unanimi, su proposta del Sindaco e sentito il Capo Dipartimento Organizzazione che aveva espresso il preventivo parere favorevole di regolarità tecnica”. Insomma, tutti d’accordo. Tanto paga Pantalone…