Nei giorni che precedevano l’assalto delle truppe della coalizione internazionale per la liberazione di Falluja, due anni dopo l’auto-proclamazione dello Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham (del Levante) – ormai conosciuto con l’acronimo di Isis –, nella provincia sunnita di al-Anbar, in Iraq, alla fine del marzo scorso, alcuni testimoni riferiscono di avere visto il capo della polizia del governatorato locale, Hadi Razaij, seduto su un letto, in un casolare abbandonato, nei pressi del fronte, angosciato. I centinaia di jihadisti che occupavano la città avevano una lunga e intensa preparazione militare, che l’esercito iracheno non era addestrato sufficientemente ad affrontare.
La sua presenza sul campo, da comandante supremo dell’esercito governativo, in un Paese, l’Iraq, a maggioranza sciita, dimostrava che il confronto che la minaccia del Califfato mette in gioco non è più tra sunniti – la corrente islamica maggioritaria nel 90 percento dei Paesi musulmani, ma non in Iraq: il ramo “ortodosso”, che ritiene che la guida spirituale e politica della comunità musulmana debba essere affidata ad un califfo, e il cui Stato leader di riferimento è l’Arabia Saudita – e sciiti – la più numerosa minoranza islamica, che è maggioranza in Iraq, e ha nell’Iran il Paese leader: ritiene che gli imam siano le guide spirituali, con l’autorità di interpretare il Corano, e riconosce un’autonomia tra la sfera politica e quella religiosa –. È una guerra tra fratelli musulmani, anche di uno stesso ramo, di una stessa famiglia, non soltanto religiosa.
“Oggi non abbiamo tanto bisogno di una riconciliazione tra sunniti e sciiti, quanto piuttosto di darci da fare per una riconciliazione tra sunniti e sunniti”, ha commentato, infatti, Razaij. La sua battaglia è ancora più dura e radicale, sul piano personale, di quella, già dolorosa, tra fratelli di fede. La sua è una guerra in famiglia, tra fratelli di sangue. Come ha riferito l’agenzia di informazione curda “Rudaw”, a un posto di blocco nei pressi di Fallujah, era stato arrestato poco prima il fratello minore, mentre era alla guida di un’autobomba piena di esplosivo, con l’accusa di essere nelle file dell’Isis; quindi, nella parte opposta della barricata di Hadi Razaij, che pure aveva cercato di evitare l’arresto.
Alla domanda, su quanti siano i casi di guerre intestine familiari, tra filo-governativi e miliziani del Califfato, la risposta del generale è stata: “Troppi”. Anche uno dei suoi uomini di fiducia, Salih Ibrahim Sharmoot, che ha combattuto nella parte meridionale di Falluja, ha dichiarato che il fratello Muwafaq si trovava in città dalla parte opposta della barricata, tra i miliziani dell’Isis. “Se lo prendo in battaglia, lo uccido con le mie mani, perché è un criminale”, ha dichiarato.
La guerra globale promossa dal sedicente Stato Islamico presenta, insomma, le caratteristiche di una vera e propria questione (o forse, meglio, un “affare”) di famiglia, appunto: un conflitto tra parenti stretti, di fede e di visione politica, che appare irredimibile.
L’agenzia d’informazione curda “Rudaw”, nei giorni scorsi, ha riproposto un video, messo in circolazione dall’Isis in aprile, nel quale appariva lo sceicco Faisal Hammadi, fratello di Nawfal Hammadi, governatore di Ninive, che, presentandosi come un “comandante jihadista”, dichiarava di “ripudiare” il diretto consanguineo. Il quale, in occasione della liberazione della regione dal Daesh da parte della coalizione internazionale, nel mese di marzo, con un comunicato stampa, aveva dichiarato che l’esercito locale non aveva partecipato all’operazione militare, in quanto “impreparato”.
Quelli dei fratelli Razaij, Sharmoot e Hammadi, insomma, non sono casi isolati. Sono centinaia o forse più, i musulmani sunniti dello stesso nucleo familiare impegnati – almeno, a prima vista – su fronti opposti. La televisione curda ha pubblicato un lungo elenco di nomi “meno eccellenti”, di soldati governativi e militanti jihadisti, fratelli nemici. Se e dove è vera lotta, tra parenti-serpenti, per il controllo del potere, questa appare più dura e determinata che nei confronti dei nemici esterni.
È stato l’effetto “boomerang” dell’intervento statunitense in Iraq, nel 2003, dopo l’attentato alle Torri Gemelle. La comunità irachena l’ha vissuto come una vera e propria invasione, alla quale ha reagito con una insurrezione. Migliaia di “buoni” sunniti sono stati sfollati dalle loro case, centinaia sono stati trattenuti ingiustamente in prigione, molti sono morti combattendo nell’esercito governativo e moltissimi, invece, sono passati a combattere insieme all’Isis. In qualche caso, racconta Razaji, iracheni arrestati ingiustamente come terroristi, hanno cominciato a studiare il Corano aderendo all’Islam sunnita più radicale. Alaa al-Jibouri, un sunnita della provincia di Salahuddin, che si è unito all’esercito governativo, ha detto che lo zio, un membro dello Stato Islamico, non era religioso, prima di essere imprigionato in un carcere americano in Iraq. Abu Anas, un contadino della provincia di Diyala, ha riferito che il fratello minore Hatim si è unito a un gruppo politico-religioso che chiedeva un giusto trattamento della minoranza sunnita da parte del governo sciita, nel 2014. “Non avrei mai immaginato che il mio buono e ingenuo fratello, benché con il carattere irascibile, potesse trasformarsi in un mostro. E la sua scusa è che non voleva essere macellato come un pollo”, ha dichiarato Anas. “Lui ha scelto la via dell’inferno, io quella del cielo”, ha continuato il contadino, che ha imbracciato un vecchio Kalashnikov che teneva in casa come un reperto ed è entrato nell’esercito governativo. Mentre un video messo in circolazione dall’Isis mostra un miliziano che spara alla testa del fratello maggiore, soldato delle forze di sicurezza governative, in ginocchio in tuta arancione.
La pace, in Iraq, la roccaforte del Califfato, sembra un traguardo sempre più lontano e difficile, anche all’interno della stessa comunità sunnita e delle famiglie. La guerra tra fratelli, di fede e di sangue, è ormai così esacerbata che la riconciliazione, oggi, sembra perfino impossibile.