A poche ore dal voto in Turchia, che ha visto entrare fortemente in gioco la componente curda, siamo andati a trovare Rezan Kader, Alto Rappresentante in Italia del Governo Regionale del Kurdistan dell’Iraq. E’ nata a Sulaymaniyah, la città d’arte considerata la capitale culturale del Kurdistan. Negli anni Ottanta, è stata attiva nel movimento studentesco in lotta per il rispetto dei diritti umani nella Regione; poi però, a causa dell’intensificarsi delle persecuzioni e delle torture del regime baathista ai danni del movimento studentesco, fu costretta a lasciare il proprio Paese. In seguito al riconoscimento dello status di rifugiata politica da parte della Francia, si trasferì in Italia per frequentare la Facoltà di Medicina. Dal 1988 è Rappresentante delle Donne Curde in Italia.
Come giudica il risultato delle elezioni in Turchia?
“Fondamentale. Quando dalla partecipazione del popolo alla crescita di un Paese arrivano risposte concrete, allora si è sulla strada giusta per arrivare alla pace attraverso il dialogo. Siamo contenti di come sia andato l’andamento del voto, proprio perché libera espressione democratica, figlia di una sana convivenza. Auguro pertanto un buon lavoro ai nuovi deputati”.
Com’è il rapporto del popolo curdo con l’Italia?
“Risale ad anni fa. E’ molto cordiale e amichevole, ma anche collaborativo. L’Italia è uno di quei Paesi che è sempre stato vicino al popolo curdo, si è sempre interessato a ciò che accadeva dalle nostre parti. Non è certo uno di quei Paesi che ha venduto armi chimiche o altre armi che potessero essere usate contro il nostro popolo; è stata anche protagonista, insieme agli altri alleati, della caduta di Saddam Houssein nel 2003, quella che noi chiamiamo la ‘liberazione’; non dimentichiamo che nel 1988 ci bombardò proprio con le armi chimiche, che provocarono 5000 morti. Da quel momento in poi l’Italia non ha più lasciato il popolo curdo.
Ora il nemico è un altro…
Dāʿish, che voi chiamate Isis, è un’organizzazione terroristica mondiale, che costituisce una minaccia per l’intera umanità. Come popolo, come governo, come peshmerga siamo i primi ad affrontare questo nuovo tiranno, e l’Italia anche in questo caso è partecipe. All’inizio con aiuti umanitari, poi pian piano anche con quelli militari. Devo ringraziare l’Italia perché il primo premier che si è recato in Kurdistan il 14 agosto è stato proprio il presidente Renzi, che ha incontrato tutte le autorità politiche curde e ha visitato anche i campi profughi. Poi sono arrivati anche gli altri Paesi.
Nell’Iraq del dopo Saddam si è tentata un’operazione politica che avrebbe dovuto essere duratura, e cioè riunire le varie anime esistenti e farle diventare una cosa sola per il buon governo del Paese. Ma poi è tramontata. Ce ne vuole parlare?
“La scelta politica dell’amministrazione Obama di ritirare il contingente militare dall’Iraq – anche se avevamo chiesto loro di non abbandonare il territorio – è stata una scelta prematura in quanto il Paese verteva in una situazione di instabilità politica e militare. Ciò ha danneggiato il processo di normalizzazione del nostro Paese. A questo si devono aggiungere le debolezze dei governi insediati; noi curdi abbiamo insistito affinché tutti fossero rappresentati, perché non è possibile avviare un progetto dove solo una parte comanda su tutte le altre. Volevamo che tutti fossimo sulla stessa piattaforma, e per dare concretezza a questa idea abbiamo contribuito massicciamente alla ricostruzione dell’Iraq. Noi già dal ’92 avevamo ripulito e rimesso in piedi il Kurdistan, mentre il resto dei territori erano ancora distrutti. Abbiamo eletto un governo, un parlamento, dei ministri, un presidente. Non c’erano aeroporti e noi ne abbiamo costruiti cinque, non c’era che un’università mentre oggi ne abbiamo una ventina. Abbiamo iniziato la nostra ricostruzione dalla scuola, perché per noi è la base per poter andare avanti”.
Questo per il Kurdistan, ma tornando all’Iraq: qual è la situazione?
“L’88% circa dei cittadini ha votato una nuova Costituzione, siamo un Paese federale. E’ la base di partenza di un nuovo progetto, che mira alla ricostruzione totale. Ma non tutto ha funzionato: togliere il potere ai sunniti che lo avevano in mano da 40 anni e darlo agli sciiti che non lo hanno saputo sfruttare, la malattia del presidente Talabani, la cattiva gestione di Nuri al-Maliki sono tutti elementi che oggi hanno portato all’arrivo di Dāʿish. Certo è che se non si presta attenzione a una parte del popolo, essa si rivolterà; e in quel momento in questa condizione c’erano i sunniti”.
A proposito di Isis, dopo ciò che è accaduto a Mosul, vi siete trovati a dover gestire un flusso enorme di profughi cristiani e yazidi. Come ha reagito il suo popolo all’arrivo improvviso di migliaia di persone?
“I cristiani non potevano rivolgersi a nessuno perché erano circondati, li hanno praticamente buttati verso il Kurdistan, cacciati a piedi nudi, espropriati di ogni loro bene. Ma per noi non esistono differenze tra yazidi, sciiti, sunniti, cristiani. Non abbiamo mai chiesto ‘chi è il tuo vicino di casa?’, ‘a che religione appartiene?’ Nel nostro Paese convivono da sempre chiese e moschee, in pace. E la convivenza civile di tutte le etnie è alla base della nostra cultura. Ecco perché quando sono arrivati i profughi abbiamo pensato subito di metterli in sicurezza trasportandoli al centro della capitale, in luoghi più sicuri dei campi profughi lungo il confine – come avevamo fatto precedentemente con i 700.000 siriani -, perché sapevamo cosa Dāʿish voleva fare loro.
Il popolo curdo ha sofferto molto, e non dimentica. Eravamo noi stessi rifugiati, bombardati, perseguitati: dunque capiamo benissimo quale sofferenza ci sia. Tantissime famiglie hanno aperto la propria porta di casa; chi aveva un posto letto ha ospitato un persona, cristiano o yazidi che fosse. Tutti gli uffici governativi, le scuole, sono stati messi a loro disposizione. Certo, la sistemazione è comunque provvisoria: la speranza è di farli rientrare nelle loro case, ma ci vorrà tempo. Noi saremmo anche in grado di riconquistare rapidamente quei villaggi, ma sono tutti minati. Ci vuole un’opera di bonifica accurata, che potrà essere fatta solo in presenza di altre condizioni rispetto alle attuali”.
Che rapporti avete con il Vaticano?
““Ottimi. Dobbiamo ringraziare papa Francesco per il suo appello mondiale in favore del popolo curdo. Mai accaduto prima che la Santa Sede si esponesse con una tale fermezza in difesa di un popolo oppresso, in particolare dei fratelli cristiani perseguitati. Dopo quel messaggio il mondo si è scosso. I cristiani in Medio Oriente sono veri cristiani, quelli che hanno difeso il Crocifisso con tutte le proprie forze, lasciando ciò che avevano per non sottomettersi agli ordini di Dāʿish che avrebbero voluto una dichiarazione di conversione all’Islam”.
Qual è il suo rapporto personale con la religione?
“Sono una credente. E credo che in qualsiasi casa di Dio ognuno possa entrare, Dio ti ascolta. Basta essere onesti e non fare della religione uno strumento per offendere ma un’educazione di vita. Personalmente mi ritengo una persona fedele al Signore, e quando sono angosciata entro dentro una chiesa”.
E con le diverse etnie?
“Ho sempre vissuto pacificamente con tutti; in Kurdistan non c’è mai stato alcun problema. Finché non sono diventata grande addirittura non sapevo cosa volesse dire essere sunnita o sciita, ma lo dico davvero… Non si viveva alcuna differenza; per me erano persone, tutti vicini di casa”.
Lei è una donna. Come vede il mondo femminile il Kurdistan?
“Il nostro popolo è stato sempre molto liberale, e la donna ha avuto costantemente un ruolo importante. Secoli fa era la donna a comandare il Paese, e oggi nel Parlamento del Kurdistan ci sono molte più donne – il 30% – che in altre realtà di Paesi stranieri, anche occidentali. E questo senza bisogno di quote rosa”.
Com’è il rapporto con la Turchia e con l’Iran?
“Con i nostri vicini di casa abbiamo rapporti molto cordiali. Per noi è importante, tutto parte dal rispetto che abbiamo per le altre nazioni, etnie o culture. Abbiamo superato alcune antiche incomprensioni, li abbiamo coinvolti nella ricostruzione (le prime aziende che hanno iniziato a ricostruire il Kurdistan insieme a noi sono state quelle turche). Noi non interferiamo nei loro affari e sicuramente non permettiamo che nessuno entri nei nostri. Proprio sulla base di questo ragionamento non commento la decisione turca di non esporsi contro Dāʿish; sono decisioni interne di un Paese sovrano, sulle quali noi non entriamo”.
Uno dei problemi interni più spinosi tra il governo centrale iracheno e i curdi è la questione dello sfruttamento delle risorse petrolifere. Ci spiega qual è la situazione?
“Nella nuova Costituzione dell’Iraq ci sono delle parti che parlano anche di questo, e chi la conosce sa che noi abbiamo fatto tutto ciò che è in linea con quanto scritto in quella Carta fondamentale. Le polemiche sono sbagliate, dunque. Se poi l’Iraq ci contesta perché soffre il fatto che il Kurdistan sia cresciuto economicamente, turisticamente, culturalmente non è un nostro problema. I soldi guadagnati li abbiamo impiegati per risollevarci, nel resto dell’Iraq non hanno fatto la stessa cosa. Baghdad era chiamata la Parigi del Medioriente, oggi è ancora distrutta, la gente fa la fame. Noi però abbiamo partecipato al governo del dopo Saddam, abbiano cercato dialogo e collaborazione, ci siamo messi a disposizione, abbiamo contribuito alla ricostruzione, ma ora non possiamo lasciare che l’Iraq ci faccia tornare indietro. Oggi siamo a un livello perfino superiore a Dubai; se si vuole camminare insieme bene, ma bisogna muoversi davvero. Se dall’altra parte non arrivano risposte noi non possiamo farci nulla”.
Il fronte petrolifero non è l’unico aperto, nei rapporti interni. C’è proprio la questione dell’Isis a creare ulteriori barriere… Perché?
“L’Iraq ha acquistate per lungo tempo armi. Mentre noi avvertivamo anche l’Occidente del pericolo che stava rappresentando Dāʿish, il governo centrale accumulava un arsenale. Alla fine abbiamo capito che queste armi, per puro caso, una settimana prima che i jihadisti attaccassero il Kurdistan, sono finite a Mosul. Non solo. Ma mentre noi aspettavamo da 6 mesi il budget che il governo centrale doveva trasferire a noi, a Mosul è arrivato quello di un intero anno tutto insieme. Sempre due giorni prima dell’attacco. Quelle armi e quei soldi dove sono finiti?”
Come vede il futuro del suo Paese?
“Noi vogliamo restare in un Iraq unito, ma se non ci è permesso di poter crescere e vivere in pace, non possiamo lasciare che qualcuno ci riporti indietro nella sofferenza, nel sangue, nella distruzione. Oggi l’Iraq ha tolto il pane dalla bocca del popolo curdo, i nostri peshmerga sono senza stipendio da circa un anno. Il governo regionale del Kurdistan non può pensare a 2 milioni di rifugiati, 6 milioni di cittadini e poi elemosinare risorse dal governo centrale. Il Presidente del Consiglio dei Ministri Nechirvan Barzani ha dichiarato che qualora Baghdad non rispetti gli accordi presi, vale a dire il 17% del budget nazionale (sulla carta, perché poi in realtà si è scesi all’11%; soldi che comunque non arrivano), il KRG sarà costretto a ricorrere ad altre soluzioni, quale una divisione economica per garantire il budget necessario alla Regione.
Noi vorremmo restare in un Paese unito e federale, ma se siamo costretti a gestire in proprio il Paese e mantenere il popolo, non ha senso restare nell’Iraq”.