A pochi giorni dal voto amministrativo qualche riflessione sul sistema-Italia va fatta. Prima tra tutte quella del fallimento del modello “sindaco d’Italia” che non ha funzionato come Renzi aveva sperato. Lo scollamento tra i territori e il governo centrale, infatti, è stato evidente, l’astensionismo è rimasto alto. E questo probabilmente perché replicare ciò che nasce a livello locale da conoscenze dirette di persone e problemi mettendo quell’idea in un sistema più ampio, con relazioni che necessariamente devono tener conto di spinte globali, non funziona. Sul tema – squisitamente politico – abbiamo intervista Enrico Letta, ex primo ministro e direttore della Scuola di affari internazionali dell’Istituto di studi politici di Parigi.
In una situazione politica generale dove i partiti sono sempre meno poggiati su quella che una volta veniva definita la “base” e sono sempre più costruiti attorno a un leader, non c’è il rischio che si confonda il guidare un Paese con il comandarlo?
“Certamente, il rischio esiste. È un effetto collaterale dell’eccessiva personalizzazione della politica. Ci si affida al capo di turno con l’alibi della disintermediazione, come se fosse una condanna inevitabile, uno specchio dei tempi che viviamo. È una tendenza, che, complice la crisi e la rivoluzione digitale, interessa molte democrazie avanzate, ma in Italia affonda le radici in una cultura politica debole, in una percezione dell’interesse nazionale e della comunità troppo spesso blanda e opzionale”.
“Andare insieme, andare lontano” sembra un inno alla concertazione. Eppure l’Italia ad un certo punto è sembrata stanca di quel modello. Cosa non ha funzionato? E perché ritiene sia opportuno riproporne uno simile?
“È un inno alla comunità, alla riscoperta di una missione condivisa, al confronto con la società nelle sue differenti articolazioni. La concertazione, che effettivamente in molti casi ha fallito negli anni scorsi, si discosta molto da questo modello. È quella dei blocchi corporativi e dei veti incrociati, non certo quella fondata sulla sussidiarietà e sull’assunzione rigorosa delle responsabilità, ciascuno nel proprio ambito”.
Lei quando era a Palazzo Chigi non ha avuto possibilità di grande dialogo con il Movimento di Grillo, eppure reputa positiva l’esperienza del web, quando afferma che “viene meno il vantaggio competitivo dei dominanti e i nuovi arrivati sono nelle condizioni di scalare la politica, fino a vincere le elezioni”. Quali opportunità e quali rischi vede nella Rete?
“Rischi e opportunità si equivalgono. Dipende da quanto saremo in grado di comprendere e gestire la rivoluzione della partecipazione che la tecnologia ha generato. Penso alle infinite potenzialità che la Rete offre in termini di relazioni, approfondimento, confronto. Partiti e movimenti non possono concedersi il lusso di perdere queste occasioni di interazione. Penso anche, tuttavia, al pericolo, che la politica attuale effettivamente corre, di saltare la fase dell’approfondimento e lasciarsi guidare dal sentiment della Rete. È una tentazione insidiosa, che deteriora la qualità della democrazia rappresentativa. Di certo c’è che l’unico modo per sventare questi rischi e valorizzare le occasioni positive è trasformare l’autorità in autorevolezza”.
Lei ha scritto che l’attuale governo è concentrato sul “fare per dire di aver fatto” piuttosto che sul “fare bene”. E’ lo scotto da pagare nel decidere di avere un “sindaco d’Italia”?
“In parte sì, ma entrambe le questioni sono troppo articolate per accontentarsi di una sintesi parziale. La prima chiama in causa il “fattore tempo”, con un’accezione dell’efficacia nell’azione dell’esecutivo che assomiglia più a una “to do list” – con promesse e annunci da spuntare e offrire al più presto a un’opinione pubblica ansiosa di risposte – che a un esercizio (programmato e ragionato) dell’attività governo. La seconda questione, quella del “sindaco d’Italia”, è ancor più spinosa. Si lega sì al fattore tempo, ma chiama in causa molti altri elementi, primo fra tutti un rapporto più diretto coi cittadini. Va da sé che pretendere di applicare questo modello a un sistema per ben più complesso come quello nazionale, peraltro inserito in un sistema di governance europea molto vincolante, è un’illusione pericolosa. Oltreché, a mio parere, inapplicabile in un Paese culturalmente e territorialmente frammentato e composito come il nostro”.
C’è chi, pur criticando il modo di muoversi del premier, lo considera comunque il “male minore” rispetto all’immobilismo nel quale il Parlamento ha spesso relegato il Paese. Come valuta considerazioni come questa?
“Non è il male minore, è una scorciatoia. Il governo sta facendo bene laddove, anziché lasciarsi prendere dalla fretta e dalla retorica del turbo dei suoi esordi, accetta la costruzione paziente di risposte complesse a problemi complessi. Penso a taluni aspetti del Jobs Act o alla parziale correzione in Parlamento del testo della riforma della scuola. Quando, invece, procede a colpi di forzature – mi riferisco soprattutto alla legge elettorale – il risultato è spesso un pasticcio. All’immobilismo si risponde con le cose fatte per bene. Quelle raffazzonate, al contrario, finiscono alla lunga per perpetuare problemi e criticità. Mi auguro che il metodo adottato per l’Italicum non si replichi sulla riforma del Senato. Sarebbe un perseverare nell’errore molto grave”.
Sparite le ideologie, restano i “valori”, spesso protagonisti di pubbliche dissertazioni. Ma esiste ancora una politica fondata su valori irrinunciabili o il relativismo ha preso possesso dell’intero arco costituzionale? La famiglia e la solidarietà, per fare due esempi concreti, sono fronti aperti uno con la sinistra e un altro con la destra…
“Esiste un patrimonio di ‘valori non negoziabili’ che, a mio avviso, ancora definiscono l’identità della nostra democrazia, italiana ed europea. Penso all’impegno umanitario, alla libertà d’espressione in tutte le sue declinazioni, alla solidarietà. Sono principi condivisi che sempre più prescindono dalle categorie politologiche del passato. Tutto comunque è in evoluzione, la trasformazione in corso cambia il volto delle nostre società con accelerazioni che con fatica riusciamo anche solo a comprendere. Per questo è indispensabile non smarrire mai la bussola dei valori universali che ci connotano, non scendere a compromessi con la ricerca del consenso a tutti i costi. Quando ciò accade – ricordo, ad esempio, le vergognose polemiche su Mare Nostrum e l’assistenza ai profughi – il rischio non è solo annacquare la nostra identità, ma smarrire noi stessi, perdere le ragioni più profonde del nostro essere nazione avanzata”.