Le esecuzioni capitali in Pakistan erano state sospese nel 2008. Oggi, dopo aver osservato i sei anni di moratoria informale su questo tipo di condanne, il tribunale del distretto di Rawalpindi ha ordinato di eseguire, il 18 settembre, l’impiccagione di Shoaib Sarwar, detenuto del carcere di Adiala. La sentenza, per l’uomo, era giunta il 12 luglio del 1998 con l’accusa di aver ucciso un uomo a Wah Cantt, nei pressi di Rawalpindi, nel 1996.
Ma la Commissione per i diritti umani del Pakistan si è opposta, esprimendo grave preoccupazione e invitando il governo ad annunciare una moratoria formale sulle esecuzioni: “Vogliamo ricordare al governo – si legge in una nota ufficiale – che le ragioni che hanno causato la sospensiva del 2008 non sono cambiate. Queste includono le ben documentate carenze delle leggi, le lacune nell’amministrazione della giustizia e nei metodi di indagine e la corruzione cronica. In considerazione di questi fattori, la pena capitale permette una elevata probabilità di errori giudiziari che è totalmente inaccettabile in una società civile, in particolare perché la punizione è irreversibile”.
Ad opporsi alla decisione del tribunale di Rawalpindi, anche la Commissione Internazionale dei Giuristi (Icj), che con urgenza ha chiesto oggi al governo pakistano di fermare la condanna: “La rottura della moratoria sarà un grave passo indietro per il Pakistan”, ha ammonito.
La pena capitale, nel Paese, resterà in vigore per 28 reati. La reintroduzione di questa pratica entra in contrasto con il movimento globale e regionale che chiede l’abolizione della pena di morte. In tutto il mondo, i paesi che sono riusciti a cassare il massimo supplizio sono 150, di cui 30 della regione Asia-Pacifico.