Lasciare la propria casa, gli amici e i parenti per inseguire un sogno: studiare per diventare medico e aiutare gli altri. E’ quello che desidera Atai Walimohammad, un giovane di 21 anni nato in Afghanistan. Ha raggiunto l’Italia nel 2013, e dopo aver ottenuto lo status di rifugiato politico ha iniziato a collaborare con le Istituzioni in diversi centri d’accoglienza come mediatore linguistico. A In Terris racconta spontaneamente la storia della sua infanzia, fatta di violenza e soprusi, e del lungo viaggio compiuto a bordo dei mezzi più disparati per poter raggiungere l’Europa.
Fanatici religiosi
“Sono figlio di un medico, mio padre si chiamava dott. Atta Mohammad e fu ucciso dalla gente del mio villaggio – dice Atai -. Ero così piccolo che non l’ho mai conosciuto”. Crescendo si è accorto di avere in casa foto e libri di medicina. La curiosità nel vedere quelle immagini lo ha portato a domandare alla madre: “Di chi sono queste foto ed i libri?”. “Mia mamma mi disse che appartenevano a mio padre. Mi raccontò che fu ucciso da un imam con l’aiuto della gente del posto”. Atta è stato assassinato per le sue idee, considerate “atee” dai talebani. “Mio padre ha sempre consigliato agli abitanti del villaggio che non vale la pena fare il kamikaze per andare in paradiso, azioni di questo tipo avvantaggiano solo i Paesi stranieri che occupano la nostra terra. ‘Iscrivete i vostri figli a scuola’, diceva”. Atai è rimasto colpito dal carisma del padre e così, fin da piccolo, è nato in lui il desiderio di diventare un psicologo, proprio come il genitore. Così ha iniziato a frequentare i corsi di matematica, biologia, fisica, chimica e scienza. Ma la sua passione verso le materie scientifiche non era ben vista dai religiosi del suo villaggio: “La gente parlava sempre male di me e cercava di ostacolarmi, ma nonostante tutto questo non mi sono fermato ed ho continuato a frequentare la scuola“.
Scuola di kamikaze
Nel 2011 i talebani hanno aperto un centro di addestramento per i kamikaze in una zona rurale, abbastanza lontano dal villaggio di Atai. “Un luogo terribile dove insegnavano ai ragazzi a farsi esplodere in nome di Allah – ricorda -. I giovani hanno iniziato ad abbandonare la scuola per andare alla madrassa (luogo dove si propone un percorso formativo specificamente focalizzato sull’apprendimento dei fondamenti dell’islam ndr)”. Atai non si è perso d’animo e l’anno successivo, con l’aiuto dei soldati statunitensi e del governo afgano, ha aperto un centro per l’apprendimento dell’inglese e dell’informatica, riservato ai bambini e agli adulti del suo villaggio. “All’inizio non venivano in tanti, ma poi il numero è aumentato. Una volta a settimana venivano gli americani a pattugliare le abitazioni. Io andavo sempre a parlare con loro”. Con quei soldati si è creato una sorta di legame. “Un giorno mi portarono libri, quaderni, tappeti, sedie, matite, lavagne e tavoli per i miei studenti”. All’indomani, Atai decide di distribuire tutto il materiale ai suoi ragazzi. “Sono riuscito a convincere tanti padri di famiglia del luogo a iscrivere i loro figli ricordandogli che l’educazione è la migliore arma rispetto al fucile!“.
Violenza e distruzione
Tutto sembrava procedere per il meglio, e Atai, con i suoi fratelli, si dedicava anche all’arte. Realizzava diverse sculture, decidendo di portarne una scuola. “Era una cosa strana sia per gli insegnanti che per gli studenti; alcuni erano contenti di vederla mentre altri si sono arrabbiati!”. Qualcuno scambiò quella figura per un’immagine di Buddha. “Mentre io e il mio piccolo fratello facevamo vedere la scultura agli studenti, è venuto l’insegnante di teologia ed ha cominciato a romperla. Dopodiché ha incitato i ragazzi a picchiarci”. Atai e il piccolo fratellino tornarono a casa insanguinati. Nel villaggio iniziarono a circolare strane voci su di lui: “Dicevano che mi ero convertito al buddhismo, che ero un infedele”. Dopo quell’episodio, i genitori decisero di non mandare più i loro figli al centro dove insegnava Atai. Poche settimane dopo, un blitz dei soldati americani nel villaggio provocò la morte di quattro talebani. Gli imam lo accusarono di essere una spia, sostenendo che quegli uomini fossero morti per colpa sua. “Dicevano che mi ero convertito al cristianesimo. Il leader religioso del mio villaggio, con altre persone, ha bruciato il centro in cui insegnavo, poi sono venuti a casa, mentre io non c’ero, e hanno torturato e picchiato a sangue il mio fratellino”. Per punizione, inoltre, distrussero tutte le sue sculture. “Tutto il villaggio voleva uccidermi. Sono riuscito a scappare nella provincia di Herat da dove ho lasciato subito definitivamente Afghanistan”.
Sulle orme del padre
Nel frattempo il fratellino di Atai era stato operato ai testicoli. Dopo aver lasciato l’ospedale iniziò a frequentare la moschea. “Non per fede in Allah, ma per paura dei talebani“. Ma nel giro di due anni lascia la madrassa per seguire le orme del padre e del fratello maggiore. “Mio fratello cercava di far capire alla gente che non è giusto farsi esplodere per andare al paradiso. ‘Non uccidete i bambini’ gridava, lasciate decidere a noi e ai nostri genitori come educare i nostri figli’“. Alcuni lo ascoltarono, ma l’imam era pronto a osteggiare anche il fratello di Atai. Così il leader religioso emanò un decreto nel quale era scritto: “Dostmohammad (questo il nome del fratellino ndr) si è convertito al cristianesimo e sta cercando di far convertire i nostri figli, deve essere impiccato e lapidato davanti alla gente del posto e non deve scappare come suo fratello”. Dostmohammad decise allora di contattare Atai per metterlo al corrente della situazione. Prima che i talebani eseguissero la sentenza, la madre dei due fratelli riuscì a convincere alcuni uomini a nasconderlo per poter poi fuggire. “Prima ha raggiunto la Bulgaria, poi da lì è arrivato in Germania dove ha fatto domanda di asilo politico. Ora si trova a Monaco”, racconta Atai.
Una famiglia distrutta
Con la madre, in Afghanistan, rimase Liaqat Ali, fratellastro di Atai. “Faceva il medico in un ospedale privato, e mentre si preparava per fare la specializzazione, fu avvicinato dai talebani che gli chiesero di lavorare per loro. Al suo rifiuto è stato minacciato di morte e gli è stato detto di non curare l’esercito governativo. Ma il suo ulteriore ‘no’ si è tradotto in un rapimento. E’ stato prima torturato con l’elettrochoc, poi abbandonato sul ciglio della strada. Da quel momento la sua vita è cambiata: ha subito gravi danni al cervello ed è diventato menomato. Per farlo riprendere, la mia famiglia lo ha portato in un ospedale in Pakistan dove ha trovato un minimo di sollievo con una cura anti-psicotica. Durante la sua permanenza in ospedale, i talebani hanno bruciato sia il suo ospedale che la nostra casa”. Disperata, la mamma decise mandare Liaqat Ali in Europa per trovare un po’ di pace. Ora è in Italia, racconta Atai, ma “ha dovuto affrontare un viaggio difficilissimo per la sua condizione mentale. Adesso si trova in un centro per richiedenti asilo a Crotone ma manifesta ancora i problemi derivanti dalle torture subite. Ha paura di essere trovato e ucciso dai talebani anche in Italia”.
Una nuova vita in Italia
Ma anche il percorso compiuto da Atai per raggiungere il Bel Paese non è stato facile. “Ho viaggiato diverse volte sotto i cassoni dei tir per potermi salvare, attraversando diversi Paesi. Appena arrivato in Italia, non è stato facile abituarsi ad una cultura così diversa. Per integrarmi ho capito l’importanza di studiare e capire la lingua”. Così, dopo qualche tempo iniziò a lavorare in Puglia (dove c’era il campo profughi che lo ospitava) con gli avvocati che seguivano i migranti. La fortuna iniziò a sorridergli. “La mia passione per le lingue straniere mi ha portato a studiare ed imparare da solo diversi idiomi stranieri”. Frequentava anche un corso per mediatori culturali. Quindi riuscì a trovare un lavoro con l’Associazione Lia di Bergamo come interprete e mediatore nel Centro di Prima Accoglienza di Zavattarello. “Nel frattempo sto frequentando l’università per conseguire la laurea triennale in Scienze della Mediazione linguistica”. In Italia Atai ha trovato una nuova famiglia: “E’ composta dai miei colleghi e dai ragazzi che ospitiamo, ai quali cerco di essere d’esempio e di riproporre le attività che svolgevo in Afghanistan: collaboro nell’insegnamento dell’italiano e facciamo laboratori artistici. Seppur da breve tempo in Italia, i giovani hanno già raggiunto un buon livello di conoscenza linguistica. Nel tempo libero si sono adoperati anche nella realizzazione di una scultura che vorremmo donare al Comune in segno di riconoscenza per l’accoglienza“.
Un messaggio di speranza e integrazione
“A questo va aggiunto che da qualche giorno i ragazzi, timidamente e sempre sotto nostra tutela, frequentano le strutture sportive del locale oratorio cominciando ad interagire anche con i loro coetanei italiani e cercando, attraverso lo sport, di abbattere le barriere linguistiche e culturali”. Ora Atai vive felice: “Qui mi trovo bene, il mio lavoro mi piace, mi sento libero di esprimere le mie idee e i miei interessi. Posso vivere la fede nel modo in cui desidero, ma sogno ancora di diventare psicologo come il mio papà!”. Tutto sommato, la vita è bella.