Da malattia mortale a possibile arma anti cancro. E’ la seconda vita del virus ZiKa che, trasmesso da alcune specie di zanzare, provoca nell’uomo una malattia febbrile che può portare alla morte. E’ infatti strettamente correlato a quei virus che provocano il dengue, la febbre gialla, l’encefalite del Nilo occidentale e l’encefalite giapponese.
Virus salva-vita
Eppure, da potenzialmente mortale, il virus può diventare salva-vita. Lo dimostrano i primi esperimenti fatti in provetta e su modelli animali dai ricercatori dell’Università di Washington a Saint Louis e dell’Università della California a San Diego nei quali si evidenzia come la sua capacità di uccidere le cellule progenitrici dei neuroni possa essere sfruttata per eliminare le staminali impazzite del glioblastoma, la forma più comune di tumore al cervello in grado di portare alla morte entro due anni dalla diagnosi.
“E’ così frustrante sottoporre un paziente al trattamento più aggressivo possibile, la chemioterapia, per poi vedere il tumore ritornare a pochi mesi di distanza”, ha spiega Milan Chheda, dell’Università di Washington, ripreso dall’Ansa. “Per questo ci siamo chiesti se la natura potesse offrirci un’arma per colpire le cellule che sono le principali responsabili delle recidive”.
I ricercatori hanno così pensato al virus Zika che, attaccando le cellule del cervello, è responsabile delle anomalie nello sviluppo dei feti nelle donne in gravidanza. “Abbiamo ipotizzato che la sua predilezione per le cellule progenitrici neurali potesse essere usata contro le staminali del glioblastoma”, ha aggiunto il ricercatore Michael Diamond.
I test in provetta
Sperimentato in provetta su cellule prelevate dai pazienti, il virus Zika ha dimostrato di colpire preferenzialmente le staminali del glioblastoma piuttosto che le cellule sane o le altre cellule dello stesso tumore. Iniettato in topi malati, il virus ha così rallentato la progressione del tumore aumentando la sopravvivenza dei piccoli mammiferi. In futuro, questa versione più “leggera” del virus potrebbe essere impiegata per potenziare l’effetto delle terapie tradizionali. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Experimental Medicine.