Esce oggi il nuovo libro di Andrea Tornielli, vaticanista della Stampa e coordinatore del sito specializzato Vatican Insider, “In viaggio” (Piemme, pag. 348, 18 euro) in cui racconta le visite apostoliche internazionali di Papa Francesco. In Terris lo ha intervistato.
Perché un libro sui viaggi del Pontefice?
“Ho iniziato a seguire quelli di san Giovanni Paolo II e mi sembra bello poter raccontare questo aspetto specifico del pontificato di Francesco, il modo in cui li affronta, che in fondo sono un modo per descrivere come vive la sua missione e ne rappresentano alcuni dei momenti più belli e significativi. E’ una sorta di diario di viaggio”.
Qual è quello che ti ha più colpito, che ti è rimasto nel cuore?
“Se devo dirne uno solo il momento più commovente rimane quello della Messa celebrata nel gennaio 2015 a Tacloban, nelle Filippine. Il Papa era voluto andare per forza a incontrare i parenti delle vittime del tifone del 2013 ma quel giorno stava arrivando un’altra tempesta: ricordo la celebrazione con l’impermeabile giallo, l’omelia sotto una pioggia battente, con il Papa che buttò via il testo scritto e parlò a braccio della sofferenza, della consolazione. Fu una delle emozioni più grandi. Poi il programma fu accorciato e dovemmo partire in extremis. Il S. Padre doveva restare tutto il pomeriggio ma ci imposero di ripartire alle 13 o saremmo rimasti bloccati. In effetti, un aereo con esponenti del Governo dopo di noi finì fuori pista per le condizioni meteo proibitive. Ma il Papa ci teneva ad andare a confortare quella gente. Però ce ne sono almeno altri due che mi sono rimasti impressi”.
Quali?
“Il primo è quello in occasione dell’apertura della Porta Santa a Bangui, un’altra di quelle cose che ti colpiscono. Non era mai successo che un Giubileo venisse aperto in anticipo e per di più in uno dei Paesi più dimenticati e più poveri del pianeta, una tappa che non si voleva che il Papa facesse per motivi di sicurezza. L’altro è quello di 4-5 ore a Lesbo di aprile, un segno forte sul tema dei migranti. Del resto la storia dei viaggi di Francesco era iniziata nello stesso modo, con la visita imprevista a Lampedusa. Quello di Lesbo è stato importante anche perché è stato il primo viaggio veramente ecumenico di un Papa, su invito del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e fatto tutto insieme a lui e all’arcivescovo ortodosso di Atene Hieronymos. Non ha avuto un momento né come capo di Stato né come capo della Chiesa cattolica. E’ stato un segno di ecumenismo del grembiule, del darsi da fare… del resto nel campo profughi lavoravano fianco a fianco la Caritas cattolica e quella ortodossa”.
A proposito di ecumenismo, non sono mancate le critiche al viaggio in Svezia. Lo stesso Papa ha detto che sarebbe stato un errore non incontrare la comunità cattolica.
“L’errore alla fine non c’è stato ma le critiche sono arrivate lo stesso. All’inizio Francesco aveva programmato un solo giorno, perché, come dice nel colloquio che apre il libro, non ama viaggiare. Lo scopo di quella visita era l’incontro ecumenico e poi ha aggiunto la Messa con i cattolici. Ma è stato criticato per il gesto con i luterani, che peraltro è stato compiuto nella scia dei predecessori”.
Che differenza c’è tra i viaggi di Francesco e quelli di S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI?
“Ho seguito S. Giovanni Paolo II nella parte finale del suo pontificato, quando era già malato, quindi con programmi meno faticosi. Francesco, come Benedetto, per carattere sarebbe stato meno propenso a muoversi mentre S. Giovanni Paolo II aveva reso i viaggi parte integrante della sua missione. Benedetto non concedeva molto ai fuori programma e aveva una predilezione per la profondità della parola. Francesco invece ama parlare con i gesti. In questo è più simile a Giovanni Paolo ma forse l’attuale Pontefice è più concreto, fa cose che gli vengono al momento”.
Un esempio?
“Quando in Kenya, in uno stadio gremito, dovendo parlare contro il tribalismo, ha invitato tutti ad alzarsi in piedi e a prendersi per mano, al di là di ogni appartenenza a clan e tribù. Quello fu un gesto molto concreto. E poi c’è un’altra caratteristica per i viaggi di Francesco”.
Ovvero?
“La scelta delle mete. A parte alcune obbligate, penso alla Gmg di Rio o alla Giornata delle famiglie di Philadelphia, ha una predilezione per Paesi e luoghi in cui può incoraggiare processi positivi in atto per risolvere guerre civili, conflitti religiosi, per incoraggiare tentativi di rispondere a problemi sociali. Ecco dunque che in America Latina sceglie Ecuador, Bolivia e Paraguay, in Europa non Paesi dell’Unione ma mete come Tirana, Sarajevo, l’Armenia e la Georgia. L’Albania, ad esempio, era una nazione uscita dal comunismo, multireligiosa; idem la Bosnia. Per il S. Padre è una priorità dare questi segnali di incoraggiamento”.
Omelie, interviste, telefonate… Non c’è il rischio di una sovraesposizione mediatica del Papa?
“Certo, il rischio c’è… In un’altra mia intervista gli chiesi come reagiva a tutti questi osanna e lui mi rispose citando un episodio di cui fu protagonista il Patriarca Luciani. Il futuro Giovanni Paolo I disse a un gruppo di chierichetti che lo applaudivano che l’asinello che portò Gesù a Gerusalemme non poteva pensare che gli osanna fossero indirizzati a lui, erano per chi gli stava in groppa. Luciani si paragonava all’asinello e Francesco fa lo stesso. E c’è anche un altro rischio, quello della polarizzazione intorno alla figura del Papa. Un processo iniziato da parecchio. Con le telecamere, l’informazione in tempo reale amplificata dai social, si tende a fare l’equazione Chiesa uguale Papa. Ma non è affatto così. C’è molto di più nella Chiesa, realtà che vale la pena raccontare. Però c’è un risvolto positivo della medaglia. Nell’odierno panorama mondiale, di fronte al venir meno di ogni leadership, negli ultimi cinquant’anni abbiamo avuto Pontefici che hanno avuto un’influenza enorme, andata ben oltre l’ambito cattolico e cristiano, perché tutti hanno visto nei Papi persone credibili e portatrici di un messaggio universale e decisivo”.