Oggi si gode il successo, frutto dell’abnegazione, dell’impegno e, non smette mai di ripeterlo, di una fede profonda. La stessa che, nei primi anni in Italia, lo portava a pregare di trovare la sua strada. “Sono cristiano e cattolico, in India siamo il 3% di una popolazione di 1 miliardo. Più o meno quanti sono i cattolici italiani” dice fiero. Era un predestinato Siju (il suo vero nome) e chiedeva a Dio di aiutarlo a raggiungere il suo obbiettivo: entrare nel mondo del commercio. Poteva bastargli il suo lavoro da maggiordomo a servizio della facoltosa famiglia Brachetti Peretti, al vertice della holding petrolifera Api. Era sufficiente a garantire a sé stesso e a sua moglie una vita più che dignitosa. Invece no, Giacomo era ancora alla ricerca del suo Klondike.
“La risposta” arrivò per caso in una gioielleria del centro, grazie all’incontro con uno sconosciuto e a poche, all’apparenza insignificanti, parole: “Gli indiani sono i migliori con i diamanti”. “E’ stato un segno dall’alto – racconta oggi Siju – ho capito che quella era la mia strada”. Volò in India, comprò 500 euro di brillanti e tornò in Italia. Il guadagno di quella vendita fu la sua “numero uno”. “Negli anni successivi continuavo a lavorare come maggiordomo e nelle pause mi recavo con i rappresentanti nelle migliore rivendite di Roma. Dopo qualche tempo ero conosciuto ovunque nel settore”.
Arrivò il momento delle scelte. Con una credibilità e una ditta personale alle spalle Siju decise di lasciare il suo posto da domestico. Il salto nel vuoto non lo spaventò nemmeno, quando, nel 2010 conobbe i primi problemi economici. “Alcune aziende non mi pagavano. Pregai ancora una volta e la risposta non tardò ad arrivare”. Giacomo comprese che nel commercio chi si ferma è perduto. “Capii di dover differenziare i prodotti. Con un socio aprimmo un’agenzia dii viaggi. Poi mi misi a esportare abiti usati da Napoli in India. Infine entrai nel mercato del caffè”.
Ma il successo non ha fatto dimenticare a Giacomo le sue origini. “Avevo avuto tanto – racconta – e mi chiesi cosa potessi fare per aiutare chi sta male”. Così Siju è riuscito a trasformare la sua fortuna in un’occasione per fare del bene, dando lavoro nelle sue piantagioni ai poveri dell’Uganda.
Quella di Giacomo è solo una delle storie dei 400mila imprenditori stranieri che ogni giorno producono ricchezza per il nostro Paese. Secondo una rilevazione di inizio 2014 la loro attività rappresenta l’11,2% del Pil italiano (pari a 200 miliardi). Non solo: creano occupazione (basti pensare che circa 3 milioni di italiani sono impiegati nelle loro aziende) e versano all’Inps qualcosa come 10 miliardi l’anno di contributi. La loro forza viene soprattutto dalla vita che si lasciano alle spalle. Il ricordo della fame, dell’indigenza e, in molti casi, dei soprusi subiti nei Paesi d’origine permette loro di non arrendersi di fronte alle avversità. Certo ci sono le difficoltà e, spesso, la diffidenza di chi li incontra per strada. “Se dovessi dare un consiglio a chi viene in Italia gli darei quello di imparare subito la lingua. Altrimenti sarà considerato sempre uno straniero” dice Giacomo.
Insomma la storia degli “italiani brava gente”, quelli che partivano con la valigia di cartone, sembra ormai relegata a polverosi libri di scuola. Siamo stati un popolo di migranti ma la nostra capacità di accogliere si è ridotta mano a mano che abbiamo conosciuto il benessere. Per questo la vita di Siju e quella di chi come lui trova l’America nel nostro Paese è uno schiaffo al pregiudizio. A chi continua considerare queste persone alieni in casa nostra, inavvicinabili e pericolosi. E, tenuti ben stretti i paraocchi attorno alla testa, non guarda alla straordinaria opportunità che rappresentano per tutti noi.