Esiste un forma molto subdola di schiavismo, quello che definirei “usa e getta”: ti prendo, ti pago (una miseria) e ti mollo. Non che lo schiavismo tra i secoli XIV e XVII fosse migliore, ma quello che allora consideravano un “bene”, un valore economico, lo custodivano. Oggi non è più così, e la vita ha ancora meno valore.
E dobbiamo avere il coraggio di dire che questo mercato è alimentato dalla connivenza di certi imprenditori, specialmente per i cosiddetti lavori occasionali, stagionali o che comunque non hanno una continuità, che si raccordano con queste realtà criminali internazionali.
Ci sono persone che vogliono uscire dalla miseria, dalla schiavitù; ciò le mette in correlazione che gente senza scrupoli né pietà, che approfitta di questo anelito per lucrarci. Noi come Cisl denunciammo anni addietro la sparizione improvvisa a Foggia di gruppi di polacchi che erano addetti alla coltivazione di ortaggi; da un giorno all’altro decine di persone non c’erano più. Supponemmo fossero stati soppressi dai caporali perché si ribellavano alle condizioni in cui venivano fatti stare, ben lontane dagli accordi di partenza. Altri fenomeni simili furono denunciati a Caserta. Non solo picchiati e torturati, ma spesse volte uccisi. Un orrore senza fine.
Oggi è giusto porsi anche il problema del mancato controllo, tenendo però a mente che ciò deriva da un contesto che fa finta di non vedere ciò che accade sui territori. Se una realtà agricola vede impiegate persone come schiavi nel modo che sappiamo, con orari impossibili, sottopagati, ricoverati in posti di fortuna dove non è dignitoso vivere e in condizioni igieniche assolutamente precarie, e si gira dall’altra parte, fa sì che la conseguenza di questa indifferenza sia la latitanza degli stessi controllori. La vigilanza, prima ancora che di polizia, deve essere sociale.
Invece la nostra società sta mostrando aspetti preoccupanti: è distratta, autoreferente, non vuole fare più i lavori umili, pesanti. E non rispetta chi li fa.
In questa vicenda del barcone rovesciato si sentono dichiarazioni sull’aumento di motovedette, sul blocco degli schiavisti… Ma è mai possibile che la dirigenza italiana e quella europea non riescano a inquadrare il problema sotto il profilo politico, come invece dovrebbe essere?
Il continente africano nel prossimo trentennio triplicherà la propria popolazione: come si può pensare di fermare questa marea umana con delle navi militari se non si cambiano le condizioni di vita all’interno di quei Paesi? Come mai all’Europa non viene in mente che essendo questo scenario prossimo alla realtà, è adesso il momento per intervenire?
Servono politiche di media e lunga scadenza, di integrazione e cooperazione con le popolazioni africane, mettendo in campo tutto ciò di cui siamo capaci: dall’assistenza sanitaria alla cooperazione economica, dall’istruzione agli investimenti necessari a creare fraternità e intrecci economici.
L’Asia ha messo piede in Africa, con prospettive anche inquietanti, l’Unione europea invece sembra non accorgersi che quell’area sarà il fulcro del prossimo futuro; non solo perché abbiamo bisogno di quella mano d’opera, ma perché abbiamo ancor più bisogno di quella parte del mondo per il consumo.
Ecco perché rabbrividisco quando sento governanti affermare: adesso colpiremo gli schiavisti. Questa risposta immediata non risolve il problema che ha bisogno invece di una politica di orizzonte. Tutto il know how che possiamo dare in termini di progettazione, gestione, assistenza ci sarà ripagato mille volte, se solo avremo il coraggio di muoverci in quella direzione. Invece l’Africa è abbandonata ai cinesi.