Mentre Trump pensa a un muro sul confine messicano (lungo 3200 km) per arginare l’arrivo di clandestini – così li chiama il neoeletto – migliaia di sfollati ad Haiti cercano di raggiungere il Messico con la speranza di entrare negli Stati Uniti con l’asilo politico. Dalla metà del 2016 è Tijuana, la città di frontiera a ridosso della California, che si è vista trasformata per l’arrivo di centinaia di persone. Tuttavia le autorità statunitensi autorizzavano l’ingresso solo per poche decine. Anzi la previsione del nuovo Presidente è di rimpatriarne almeno 3 milioni senza documenti. Ma le congregazioni locali hanno continuato ad accogliere e a trovare nuovi spazi di fronte alle migliaia di persone arrivate in ottobre dopo un lunghissimo viaggio dall’isola devastata dalle calamità naturali.
Ma perché scappano gli haitiani? Quale scenario si presenta oggi nel più povero tra i paesi del Continente? “Mano a mano che ci avvicinavamo a Marché Léon nel Jérémie, il paesaggio davanti a noi era sempre più apocalittico”. A raccontare sono tre giovani venticinquenni, Marta, Simone e Cecilia, caschi bianchi dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, ovvero un corpo civile di pace, arrivati ad Haiti due settimane dopo l’uragano Matthew in aiuto alla popolazione per i prossimi 10 mesi. “Pochi giorni fa abbiamo visto coi nostri occhi case distrutte, tetti (spesso fatti di lamiere) divelti, alberi e palme sradicati seppur secolari e strade trasformate in fiumi. I volti che abbiamo incontrato erano diversi tra loro: chi ci sorrideva e chi per protesta e per attirare la nostra attenzione bloccava la strada pur di ottenere degli aiuti“.
Dopo il sisma del 2010 in cui morirono 230mila persone, l’isola caraibica nei giorni tra il 2 e il 6 ottobre è stata infatti colpita dall’uragano che ha causato quasi mille morti e 200mila sfollati. Secondo le organizzazioni internazionali, un milione e mezzo di abitanti – di cui la metà sono bambini – hanno necessità di assistenza immediata. A rischio di malnutrizione sono soprattutto i piccoli al di sotto dei 5 anni. Inoltre l’80 per cento dei raccolti nei distretti di Grand’Anse, Nippes, Sud-est, Ovest, Artibonite e Nord-Ovest sono andati distrutti e sono pure annegati il 90 per cento degli animali allevati dagli haitiani. Il governo, preoccupato di arrivare al più presto alle urne avendo rimandato già più volte le elezioni politiche, ha attivato i Centres d’Operations d’Urgences Départementaux (Coud), per dare una risposta tempestiva in particolare nelle zone costiere più martoriate dall’uragano con i suoi venti di 220 km/h. Ma non basta.
“In questo viaggio, avevamo kit di viveri e farmaci da distribuire tramite la ‘clinica mobile’ a Cafou Anri e Fonbaya. Le strade che abbiamo percorso per raggiungere i luoghi di intervento ci hanno aperto gli occhi sulla drammaticità delle conseguenze di Matthew poiché la maggior parte di esse erano talmente disastrate da divenire impraticabili. Ci ha colpito tuttavia vedere che gli stessi haitiani erano disposti a liberare, anche a mani nude, le strade pur di farci raggiungere luoghi altrimenti inaccessibili”. La popolazione infatti cerca disperatamente cibo che non arriva a sufficienza con gli aiuti umanitari. La scorsa settimana già Caritas Internationalis aveva lanciato l’allarme segnalando l’urgenza di interventi a sostegno di Caritas Haiti e delle numerose congregazioni religiose presenti nelle zone colpite. Oltre ai beni di prima necessità, la popolazione ha bisogno di prevenzione per evitare epidemie di colera e malaria dovute alle condizioni di estrema indigenza specie nelle aree rurali dove si vive a cielo aperto e sotto piogge costanti. Servirebbero semi e piantine per ricominciare a coltivare, barche e reti per far ripartire la pesca e legname per ricostruire tetti e pareti delle abitazioni.
La casa di accoglienza dove hanno iniziato il loro servizio volontario Marta, Simone e Cecilia, è situata nella zona di Croix de Bousquet, periferia di Port-au-Prince, capitale di Haiti, dove la Comunità è presente dal 2011 in collaborazione con i Padri Scalabriniani, le suore Domenicane e la Caritas. Il loro impegno quotidiano consiste nel sostenere famiglie molto povere, nella maggior parte composte da mamme sole con figli, sviluppando le attività di doposcuola e laboratori di cucina, orto, disegno. Ai bambini viene garantita anche la frequenza scolastica contribuendo al pagamento delle iscrizioni e di tutti i materiali necessari. Pur essendo a più di 150 chilometri di distanza dalla zona colpita dall’uragano, non era possibile chiudere gli occhi e non mettersi a disposizione dando priorità ai bambini e ai disabili, i più vulnerabili già dopo il terremoto e oggi doppiamente vittime in questo scenario disastroso. “Non faremo miracoli – spiega Matteo Vignato, responsabile della sede di Haiti – ma almeno cercheremo di andare incontro alle necessità delle famiglie più fragili, che hanno bimbi molto piccoli o un figlio disabile, secondo il nostro stile specifico di condivisione con gli ultimi tra gli ultimi”.
“Le vittime non si contano solo nei numeri denunciati dai media i primi giorni – spiegano ancora i volontari – ma bensì continuano ad aggiungersene poiché la preesistente situazione di povertà si è aggravata successivamente alla catastrofe. Chi ha pagato il prezzo più caro sono stati bambini e anziani che hanno perso la vita nei giorni successivi all’uragano poiché, indifesi e deboli, non sono riusciti a resistere alla fame e alla mancanza di un riparo. Tuttavia con gli aiuti che arriveranno potremo sostenere questo popolo che mostra una straordinaria forza di reagire davanti alle innumerevoli catastrofi: la natura stessa con il rigermogliare degli alberi sembra rispecchiare la voglia di rialzarsi con forza e speranza”.