I VERI OBIETTIVI DELLA COREA DEL NORD

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È uno sguardo carico d’apprensione quello che il mondo occidentale sta rivolgendo verso l’Estremo Oriente. In un crescendo di tensioni diplomatiche sull’asse Corea del Nord-Stati Uniti, si assiste ormai da settimane alle provocazioni belliche da parte di Pyongyang.

Dopo il sesto test nucleare condotto domenica scorsa, il leader Kim Jong-un non sembra mostrarsi docile agli inviti a desistere della comunità internazionale. “Prevediamo che la Corea del Nord possa lanciare un missile balistico intercontinentale”, fanno sapere fonti del Ministero della Difesa sud-coreano. Di tutta risposta, nelle scorse ore le forze armate di Seul hanno condotto un’esercitazione simulando un attacco contro un sito nucleare nordcoreano.

Siamo sull’orlo di una guerra nucleare? Sono in tanti a temerlo. Meno pessimista è invece Pio D’Emilia, inviato di Sky che vive in Asia da oltre trent’anni, uno dei pochi giornalisti stranieri a recarsi periodicamente in Corea del Nord. Secondo lui, Kim Jong-un è “molto più saggio di suo padre” e il lancio di missili ha soltanto una funzione di “deterrenza”, a tal punto che, per paradosso, D’Emilia ritiene l’atteggiamento provocatorio di Pyongyang un argine a un conflitto catastrofico. In Terris lo ha intervistato.

Come interpreta quanto sta avvenendo in Corea del Nord?
Alla base di questa crisi, c’è la legittima aspirazione di Pyongyang a raggiungere, dopo settantatre anni, un trattato di pace con un Paese con il quale di fatto è in guerra: gli Stati Uniti. Se ci pensiamo bene, dal dopoguerra ad oggi, l’unico fronte rimasto ancora aperto dal punto di vista militare, oltre che politico ed economico, è quello con la Corea del Nord.

Ed è lanciando missili e compiendo esperimenti nucleari che si raggiunge la pace?
So che può sembrare un paradosso, ma è così. È una strategia antica ed efficace. La deterrenza nucleare per sessant’anni ha salvato il mondo dall’apocalisse. La consapevolezza di Unione Sovietica e Stati Uniti che si potessero annientare a vicenda, ha garantito la pace. Non vedo il motivo per cui la strategia della deterrenza non possa funzionare ancora. E sui test nucleari mi lasci fare una precisazione.

Prego.
A differenza di quanto hanno fatto altri Paesi nel passato, Pyongyang non sta violando il trattato di non proliferazione. Ricordo che la Corea del Nord ha iniziato i test nucleari dopo il 2003, anno in cui ha formalmente abbandonato il trattato. Dal punto di vista del diritto internazionale quindi, nessuno può negare alla Corea del Nord di fare esperimenti nucleari in casa sua. Ovviamente non di lanciare missili: quelle sono operazioni militari internazionali che vanno condannate.

Mi pare di capire che secondo lei le provocazioni di Pyongyang non sarebbero poi così gravi.
È importante contestualizzare. La tensione si è alzata per colpa di entrambe le parti, non solo a causa di Pyongyang. Inviterei a considerare anche il punto di vista nord-coreano. La Corea è una nazione che esiste da cinquemila anni e che è stata artificialmente separata dalle superpotenze: prima da Jalta e poi dagli equilibri della guerra fredda. Per spartirsi le zone d’influenza, la divisione della penisola fa ancora comodo a Cina, Russia, Giappone e soprattutto agli Stati Uniti, i quali hanno sempre impedito una distensione dei rapporti tra le due Coree. Ma come è stato a suo tempo per il Vietnam e poi la Germania, anche la Corea ha diritto alla riunificazione. E prima ancora, la Corea del Nord ha diritto a un armistizio con gli Stati Uniti. Ed è questo l’obiettivo che sta perseguendo.

Esclude quindi che siamo sull’orlo di una guerra nucleare?
L’atteggiamento della Corea del Nord non porterà a nulla di apocalittico, è piuttosto un modo per assumere maggiore forza contrattuale in un eventuale tavolo di negoziato: si sta accreditando agli occhi del mondo come una potenza nucleare. Anzi, io oserei dire che in questo momento mi preoccupa più Trump di Kim. Mi ha assicurato chi lo ha conosciuto bene, che quest’ultimo è molto più saggio del padre e di come appare oltreconfine.

Eppure lo stesso Trump qualche mese fa ha detto che sarebbe onorato di incontrare Kim Jong-un. È stato un segnale incoraggiante…
Lo era, assolutamente, ed è ancora una possibilità verosimile. Io spero che a nessuno venga in mente a Washington di premere il pulsante e scatenare un conflitto con la Corea del Nord. Spero piuttosto che prevalga la linea del buonsenso. Non escludo che questo incontro avvenga.

L’incontro di un presidente statunitense con un leader nord-coreano sarebbe il compimento di un vecchio proposito, che aleggiava nei corridoi della Casa Bianca già nel 1994, ai tempi di Clinton.
Esatto. A quei tempi Madeleine Albright, segretario di Stato Usa, andò in visita a Pyongyang per organizzare un vertice tra Clinton e Kim Jong-il, padre dell’attuale leader nordcoreano. Il presidente Usa era però a fine mandato e preferì concentrarsi sul Medio Oriente per organizzare l’incontro di Camp David. Fu un’occasione persa.

Concretamente, come si esce da questa crisi?
Con un tavolo di negoziato tra i due attori della questione: Stati Uniti e Corea del Nord, con la mediazione della Cina, che è inevitabilmente coinvolta per motivi economici e politici. Negoziato che deve basarsi su alcune premesse: allentamento della tensione, nessuna provocazione da una parte e dall’altra, assenza di precondizioni ed obiettivo comune di fare la pace ed anche – perché no – una cooperazione.

Addirittura crede sia possibile una cooperazione tra Stati Uniti e Corea del Nord?
Certo. C’è un precedente storico: nel 1982 Stati Uniti e Cina firmarono un trattato di cooperazione dopo oltre vent’anni di reciproco isolamento.

Lei si reca spesso in Corea del Nord. Come si svolgono le visite?
I visitatori stranieri vengono costantemente accompagnati da due guide, che recitano la parte del buono e del cattivo: una è più accondiscendente con le richieste del visitatore e più aperta, l’altra è più rigida. Non c’è comunque un clima di terrore, tutt’altro. Io ho sempre cercato di evitare uno scontro, mantenendo un rapporto di reciproco rispetto.

Il regime è ferocemente autoritario. La popolazione come vive questa realtà?
Devo dire che almeno la popolazione delle grandi città, che io ho conosciuto meglio, vive felicemente. L’isolamento ha portato a un supporto autentico da parte della gente: loro sono talmente ignari di quanto avviene all’estero, da essere convinti che il loro sia il migliore dei mondi possibili. E poi c’è una propaganda di regime estremamente efficace: ogni piccolo progresso viene pubblicizzato in modo gigantesco. E va detto che di progressi ce ne sono diversi: nonostante le sanzioni, da vent’anni la Corea del Nord ha un’economia che cresce bene. A titolo di esempio, sono stati appena inaugurati a Pyongyang due milioni di metri cubi di appartamenti residenziali.

Vengono in mente le immagini di isteria collettiva del 2011 per la morte di Kim Jong-il…
Io ero presente ai funerali e posso assicurare che il trasporto emotivo non era finto. La riverenza verso i Kim è sincera, perché sono visti come i liberatori della patria, dal giogo giapponese prima e dalle bombe americane sganciate negli anni cinquanta dopo.

Ma esistono anche tanti dissidenti, che finiscono e spesso vanno a morire nei lager. Lei ha mai conosciuto oppositori fuggiti all’estero?
No, non li ho incontrati.

In particolare vengono avversati i cristiani…
Non mi risulta che l’internamento nei lager abbia matrici religiose, semmai sociali e politiche. A Pyongyang c’è una chiesa cristiana, ci sono anche entrato.

Ma si tratta di chiese controllate dal regime. I cristiani vengono visti, appunto, come un pericolo sociale, perché l’unica religione ammessa è l’ossequio verso il leader…
Il regime non fa sconti in questo senso. Basti considerare che se uno viene trovato in possesso di un film americano o se non urla a squarciagola il suo sostegno per il leader, sia lui che la sua famiglia diventano passibili di punizioni, anche molto severe. Purtroppo c’è anche questo aspetto.

Federico Cenci: