Lui si chiama Mohamed Azmy. Avvocato, difensore dei diritti umani, direttore del Centro di frontiera per il Supporto e Consulenza, presidente del General Nubian Union ad Aswan, un’organizzazione che si batte per il diritto del popolo nubiano – i faraoni dalla pelle nera – a rientrare nelle sue terre ancestrali.
Diritto alla terra
E’ diventato il simbolo di una lotta nonviolenta per il ritorno ai luoghi della memoria del popolo nubiano, storicamente ribelle; si batte per il diritto a vivere sulla propria terra. Una battaglia impari, che nasce in una delle periferie dell’Egitto, posti di cui nessuno sente parlare, popoli fuori dal perimetro geografico della grande stampa internazionale.
Vicenda nascosta
Assomiglia un po’ alla storia degli indiani d’America, sulla quale si sono scritti centinaia di volumi, migliaia di articoli e diversi film. Ma le vicende dei nubiani – indigeni africani situati principalmente nel nord del Sudan e nel sud dell’Egitto – sono rimaste chiuse nel mondo egiziano.
La diga
I primi problemi nacquero nel 1960, quando il governo egiziano decise di ampliare la diga di Assuan, nel sud del Paese. In migliaia furono costretti ad abbandonare le case. Per arginare il fiume Nilo, fu creato un lago artificiale e i villaggi dell’antica Nubia, che contenevano opere d’arte millenarie, furono completamente sommersi.
Promesse non mantenute
Furono disattese le promesse di ricostruire le case distrutte a causa dei lavori, i nubiani furono spostati a 50 km di distanza dai loro villaggi, lontanissimi dal Nilo, in abitazioni fatiscenti, e in molti non ricevettero nemmeno gli indennizzi.
Le proteste
Negli anni la situazione è peggiorata, e le proteste degli attivisti nubiani si sono intensificate nel 2015, quando il presidente egiziano al-Sisi ha annunciato di voler vendere un milione e mezzo di acri di terra, per un maxi-progetto di riqualificazione agricola delle aree desertiche nel sud del Paese. Altri terreni sono stati invece classificati come zone militari, nonostante fossero occupati da 16 villaggi nubiani.
Arresti
L’ultima repressione governativa risale al 3 gennaio 2017, quando 6 membri della comunità nubiana che facevano parte della campagna “Nubian Return Caravan” sono stati arrestati dalle forze di sicurezza egiziane mentre viaggiavano su un autobus in direzione di Assuan occidentale in segno di protesta contro la decisione del governo di revocare la proprietà Nubian di 138 acri di terreno per far posto a un progetto turistico.
Soli
Oltre alla storica inondazione e ai trasferimenti forzati da parte del governo egiziano, dunque, i nubiani combattono ancora con gli espropri, e con una sostanziale emarginazione culturale. Lo scorso novembre, centinaia di attivisti hanno organizzato una marcia di protesta. “Abbiamo camminato per circa 40 km e poi siamo stati bloccati dalla polizia, ci hanno intrappolato tra due check-point per non farci proseguire. Intorno c’era solo il deserto, non potevamo avanzare”. Muhammed Azmy racconta che dopo alcuni giorni lui e gli altri attivisti furono costretti a fare dietrofront, perché la polizia non li lasciava passare.
Tentato colpo di mano
Le autorità egiziane hanno minacciato di chiudere l’organizzazione di Muhammed e di congelare i suoi fondi. Hanno anche cercato di destituirlo e imporre un altro presidente alla guida dell’Unione Nubiana, ma le ultime elezioni hanno riconfermato la leadership dell’attivista. “Vogliono fermarmi, ma io continuerò a battermi per i diritti del popolo nubiano, non ci arrenderemo”.
Ecco, sembra incredibile, ma nel Terzo Millennio c’è ancora chi lotta per un pezzo di terra, per conservare le proprie tradizioni. Senza voce, senza armi, senza riflettori mediatici accesi. Ma anche senza paura.