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HAITI SETTE ANNI DOPO

Prima delle sue tragedie e del Voudù, Haiti è un mondo che va innanzitutto collocato. Non sembra far parte dell’America Latina. Non assomiglia alle sue vicine di casa – Cuba e Repubblica Domenicana – se non per qualche tratto legato alla musica, e non ricorda i vasti paesi dell’America equatoriale. Piuttosto ci si sente su un pezzetto d’Africa che si è staccato dalla costa occidentale e, abbandonato alle correnti, è finito in questi caldi mari caraibici. Appena più grande della Sicilia, Haiti occupa solo un terzo dell’isola Hispaniola, che condivide con la Repubblica Domenicana. Ciononostante ha più abitanti di quest’ultima e di Cuba che è grande quattro volte Haiti.

Più di 3 dei 12 milioni di haitiani vivono nella capitale e nel suo hinterland, dove viviamo anche noi del Fwaye Papa Nou (in creolo “Focolare Padre nostro”, nome della struttura di accoglienza avviata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII). A questi primi tratti particolari, si aggiungono quasi tre secoli di storia molto singolari che fanno dell’Haiti di oggi un paese di strade sterrate, sovraffollate di gente scurissima con grossi carichi sulla testa, rifiuti che bruciando illuminano la notte senza corrente, e un futuro molto incerto.

Lo scorso 27 Novembre si sono svolte le elezioni presidenziali, le ennesime dopo un anno e mezzo di tentativi naufragati tra i disordini. A differenza delle precedenti, questa chiamata alle urne è trascorsa in una domenica serena e pacifica. I risultati hanno portato a una vittoria schiacciante di Jovenel Moise su Jude Celestin, 55% contro 19%. Moise è ora in attesa della proclamazione ufficiale, prevista entro febbraio 2017. Il motto della sua campagna è stato “Tè a, dlo, soley ak moun yo” (terra, acqua, sole e persone). Ha puntato infatti sulla partecipazione della gente, sulle energie rinnovabili e sull’utilizzo del suolo.

Effettivamente Haiti è un paese che ha un urgente bisogno di far rifiorire la propria terra da un punto di vista agricolo, devastata negli ultimi due secoli a causa di una cattiva politica a riguardo. Nonostante ciò, sono diversi i dubbi che si percepiscono tra la popolazione rispetto alla campagna portata avanti da Jovenel, che nei mesi passati ha tempestato il paese con i suoi cartelli e si è fatto vedere in molte occasioni. “Questa dispendiosa campagna è stata finanziata dalle famiglie potenti e filoamericane che da decenni hanno in mano il paese in una lobby molto più forte dei vari governi – ci racconta Fidel, autista per Caritas Italiana ad Haiti –. Tutto ciò rischia di rendere il nuovo presidente un fantoccio nelle mani dei potenti e fa presupporre che non si porrà fine al silenzioso e corrotto accordo tra il governo e le famiglie dell’aristocrazia haitiana. È uno dei punti più dolenti nell’economia del nostro Paese: le famiglie in questione coltivano interessi privati anche all’estero, hanno il monopolio sulle infrastrutture, sul commercio e su tutte le attività principali”.

Di fronte a tutto questo lo Stato continua ad incrementare l’importazione per incassare le tasse doganali, briciole che cadono da un tavolo di grandi banchetti a cui gli haitiani non accedono mai. “Per avere una buona politica – continua Fidel – sarebbe importante avere dei politici: Neg Bannan nan (“uomo delle banane”, soprannome dato a Jovenel Moise a causa delle sue piantagioni nel nord del paese) è un imprenditore agricolo, l’ultimo presidente era un cantante, Aristide era un sacerdote”. “Tanti haitiani, anche tra noi giovani, non credono nella politica e non si fidano di nessun candidato – ci dice un ragazzo accolto qui al nostro Fwaye –. Per questo non hanno votato. Ma c’è anche una buona parte di noi che sogna una Haiti diversa, migliore, e crede ancora nei cambiamenti che solo la politica può attuare. Per me è stato importante votare”.

L’affluenza alle urne ha raggiunto solo il 20%. Nelle province manca un sistema elettorale efficace e si arriva a situazioni in cui il diritto al voto è quasi negato, soprattutto nelle zone colpite dal ciclone Matthew. Ci sono stati sforzi ammirevoli da parte di alcune organizzazioni per portare i seggi nei villaggi isolati dai grossi danni che le strade hanno subito, ma una grande fetta di popolazione non è stata raggiunta. Ora la capitale è alle prese con alcuni disordini creati dalle minoranze che hanno perso alle elezioni e denunciano brogli. Spesso sono i candidati a pagare dei poveracci perché vadano a farsi arrestare bruciando copertoni nelle manifestazioni violente. Ciononostante si tratta di isolati e disperati episodi: con il 55% “dell’Uomo Delle Banane” si spera che sia chiaro a tutti il volto che Haiti vorrebbe come presidente per i prossimi cinque anni.

Il tentativo di elezioni precedente è naufragato il 6 ottobre 2016 con il passaggio dell’uragano Matthew che ha portato devastazione, malattie e miseria nelle regioni del sud e del nord, con il conseguente numero di morti. “Un albero caduto sulla mia casa ha fratturato il bacino di mio papà – ci racconta Saintenes, nostra amica di quartiere originaria della provincia di Jeremie –. Due miei nipoti di 17 e 19 anni sono morti il mese scorso perché dopo il ciclone hanno preso il colera. Tanti di noi non hanno mezzi per ricostruirsi la casa e vivono ancora nelle scuole, ad oggi ferme. Non c’è cibo, mia mamma dice che mangiano le mandorle delle piante che si sono salvate. Io ho provato a mandare dei sacchi di riso tramite degli amici scesi al sud con un tap tap (sgangherati mezzi di trasporto pubblico) ma al loro arrivo sono stati assaltati. Hanno fatto un grosso taglio sul volto dell’autista e hanno rubato tutto puntando armi verso i miei amici”. Poi continua dicendo che la maggioranza degli aiuti si sono fermati alle città. Nel loro paesino hanno solo ricevuto una visita dalla Croce Rossa haitiana.

I contadini che prima venivano in capitale per vendere – ci spiega – ora sono qui per cercare di comprare cibo e materiale per ricostruire ma i prezzi sono alle stelle e loro sono ridotti all’osso, con grandi laghi al posto dei campi e con i tetti delle case divelti. Nel racconto di Saintenes si aggiunge qualcosa di mistico quando dice che i politici avrebbero avuto il potere di deviare il ciclone ma non l’hanno fatto. I 30 anni di dittatura Duvalier, basata sull’utilizzo di credenze voudù, hanno lasciato forti conseguenze nella mentalità locale. Anche Saintenes, come tantissimi haitiani, ripone tutto nella preghiera e nelle mani di Papa Bondye (il buon Dio), rafforzata dall’esempio della zia, cristiana e povera, che “con la preghiera ha evitato che una grossa pianta di mango cadesse sulla sua casa e che questa si distruggesse sotto i venti a 220 km/h nonostante la casa fosse di terra e paglia”.

In effetti, in tutto il villaggio distrutto, è rimasta in piedi solo la casa di fango della zia di Saintenes, accanto a una grande pianta di mango caduta a pochi metri. Con la forza data da questi esempi si ricomincia a seminare, a ricostruire, a vivere. Rivolti al domani con sguardo affrettato Haiti dà l’impressione di un Paese senza speranza, sfruttato e colpito da un numero esagerato di tragedie. A volte anche noi, presi dalla stanchezza e da qualche “giornata no”, ci facciamo coinvolgere da questa immagine rassegnata. Ma se ci si rimbocca le maniche e si libera il cuore alla relazione allora davanti agli occhi si apre un nuovo sipario e questa terra appare dipinta da nuovi colori: condivisione, tenacia, semplicità e allegria, sono sfumature che si incrociano nelle conversazioni quotidiane e nei gesti tra le persone.

Bisogna solo volerlo, lasciare a casa le paure e i pregiudizi nei confronti dell’altro e farsi abbracciare da questo popolo così diverso da noi. “Le contraddizioni e gli aspetti negativi di Haiti sono visibili a tutti – ci confida un uomo del nostro quartiere – quelli positivi invece sono più nascosti”. Un “blan” (“bianco”, come veniamo chiamati noi ogni giorno) che vive in terra haitiana li può cogliere solo se decide di scendere dal suo piedistallo per conoscere la gente, condividendo la quotidianità. Che non è fatta solo di capannoni provvisori per . È varcando le porte delle case, sedendosi a bordo di una strada con un ragazzo, bevendo alle sei del mattino un “kafè ak pen” assieme a qualche lavoratore di passaggio che si scoprono i volti più interessanti di Haiti, i volti umani. È così che cerchiamo di vivere noi del Fwaye Papa Nou. Certamente, per noi come per questo Paese, il cammino da fare insieme è ancora lungo, ma d’altronde, dove non lo è? È questa la bellezza della vita.

Tratto da “Sempre”

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