Lavorare anche per 10 ore al giorno per pochi euro di compenso. Non siamo in un arretrato Paese del terzo mondo, ma in Italia, più precisamente tra gli aranceti del bel meridione. A rivelare lo stato di semi-schiavitù in cui versano migliaia di braccianti, è il report intitolato “#FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo”, curato dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus”, “Terrelibere.org”. Il rapporto ricostruisce l’intera filiera della raccolta delle arance in Sicilia e Calabria, dai piccoli agricoltori alle grandi multinazionali, passando per i commercianti.
Grazie allo studio delle associazioni, sono stati smentiti molti luoghi comuni, a partire dall’idea che il lavoro degli stranieri nei campi sia necessario poiché gli italiani non vogliono più farlo. Dai dati emerge che in molte zone del Sud gli italiani continuino a lavorare in agricoltura, anche in umili mansioni come la raccolta delle olive o delle arance. Purtroppo, però, i compensi sempre più bassi (anche di soli 10 euro al giorno) li stanno emarginando da questo mercato. Si accontentano di paghe quasi nulle – ben al di sotto del minimo sindacale – i migranti provenienti dai Paesi dell’est Europa.
Durante le interviste realizzate dalle associazioni, emerge una contrapposizione tra braccianti italiani e arabi e lavoratori dell’est (intere famiglie con bambini) caricati sui furgoni pronti ogni giorno per la raccolta. “Lo sfruttamento non arriva con le migrazioni e la soluzione non è contrapporre lavoro italiano e straniero. Prima che di migranti, dobbiamo parlare di lavoratori. Le divisioni favoriscono solo gli sfruttatori”, si legge nel report.
Smentito anche il pregiudizio secondo cui negli aranceti lavorerebbero solo i clandestini. Lo studio dimostra al contrario che i due terzi di lavoratori sono regolarmente in possesso del permesso di soggiorno. Il problema alla base dello sfruttamento lavorativo consiste nella totale assenza di controlli sui proprietari che perciò possono decidere liberamente il prezzo dei lavoratori. Inoltre, il prezzo delle arance aumenta eccessivamente nel “tragitto” dal campo al cliente finale per la presenza di troppi intermediari, alcuni dei quali inutili.
Dotarsi di una filiera trasparente è quindi necessario non solo per la tutela dei consumatori, ma anche come risposta allo sfruttamento lavorativo gestito dalle associazioni criminali per mano del caporalato. Le associazioni coinvolte nello studio chiedono alle istituzioni che sia resa obbligatoria la tracciabilità dei fornitori, rendendo pubblico e consultabile l’elenco dei nomi. Inoltre, che venga inserita sui prodotti una etichetta narrante che accompagni il consumatore verso una scelta consapevole sull’origine del prodotto e che siano introdotte misure legislative che prevedano la responsabilità solidale delle aziende committenti. La guerra allo sfruttamento lavorativo negli aranceti passa dunque per l’etichetta.