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DUE PROFETI DELLA CHIESA IN USCITA

Perché Papa Francesco si recherà domani in visita privata a pregare sulle tombe di due sacerdoti come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani? Domanda legittima: sono migliaia e migliaia i preti che hanno vissuto santamente ma non per questo il Pontefice si reca nei luoghi che conservano le loro spoglie. Dunque? Una riabilitazione, visto quello che hanno entrambi sopportato in vita? Non è così secondo padre Giancarlo Pani, vicedirettore della Civiltà Cattolica che ne parla nell’ultimo numero della rivista. Semplicemente sono due sacerdoti che hanno incarnato, ben prima del Concilio, quello spirito di Chiesa in uscita e in dialogo col mondo che tanto piace a Francesco. In questo senso, possono essere un simbolo dell’attuale pontificato. E’ condivisibile, pertanto, l’analisi di padre Pani: la visita del S. Padre intende “dare loro il giusto riconoscimento di una profezia che la Chiesa locale a suo tempo non ha saputo apprezzare”.

Cattocomunisti?

Quelle di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani sono due figure che hanno influito molto sulla Chiesa dello scorso secolo. Ma sono anche due personaggi che hanno molto diviso (e in parte continuano a dividere…). Proprio perché si sono spinti molto avanti rispetto alle strutture “ingessate” del loro tempo, non sono stati sempre compresi. E questo ha causato loro grandi sofferenze. La scelta per gli ultimi, gli emarginati, i poveri, quelli che oggi il Papa definisce “prodotti della cultura dello scarto“; la posizione contro la guerra e a favore dell’obiezione di coscienza; l’opzione per una cultura senza privilegi e una società più giusta sono stati i grandi temi al centro della missione di questi due sacerdoti in cui, con tutta evidenza, si rispecchia Papa Francesco. Certo, entrambi sono stati in qualche modo tacciati di essere “cattocomunisti“. Un’accusa che certi settori ultraconservatori non hanno risparmiato neppure al Santo Padre. Ma è stato davvero così?

L’esilio di don Lorenzo

Chi decise l’esilio di don Lorenzo a Barbiana? Qualcuno disse il venerabile card. Dalla Costa, qualcun altro il suo successore, il card. Florit (cosa impossibile perché nel 1954 quest’ultimo era appena arrivato a Firenze). In realtà, il compagno di seminario di don Milani, don Renzo Rossi, in un’intervista del 2007 affermò che la decisione fu presa dal vicario generale mons. Mario Tirapani: il card. Dalla Costa era già avanti negli anni (ne aveva 82) e aveva affidato al suo vicario il trasferimento dei sacerdoti. Sempre secondo don Rossi, l’anziano porporato successivamente si rese conto dell’errore commesso e offrì un’altra parrocchia a don Milani che però a quel punto rifiutò. Ben più tesi furono i rapporti con il card. Florit, che lo bollò come “comunistoide” e  fece di tutto per far condannare il libro di don Lorenzo “Esperienze pastorali”.

La scuola di Barbiana

Certamente la scuola di Barbiana e alcune prese di posizione di don Lorenzo (di cui il 26 giugno ricorrono i 50 anni dalla morte) erano “all’avanguardia” per quei tempi. Il motto “I care” (mi interessa, mi sta a cuore) era emblematico dello stile educativo del priore di Barbiana che voleva una scuola non elitaria e che, al contrario, contribuisse alla crescita culturale e sociale di chi aveva meno mezzi, come i figli di operai e contadini. Ad esempio abolì le punizioni corporali e la scuola era aperta tutti i giorni dell’anno. Nello scorso mese di aprile, in un videomessaggio, Papa Francesco così definì l’azione educatrice di don Milani: “La sua inquietudine non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che, talvolta veniva negata. La sua era un’inquietudine spirituale alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un ‘ospedale da campo’ per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati”.

L’obbedienza non è più una virtù

Non meno importante la scelta per l’obiezione di coscienza che attirò su don Milani rancore e addirittura un processo per apologia di reato, terminato con un’assoluzione in primo grado mentre l’appello fu interrotto dalla prematura morte del sacerdote. La risposta ai cappellani militari della Toscana in congedo che accusavano gli obiettori di viltà e la “Lettera ai giudici” che contiene l’autodifesa al processo, costituiscono quell’opera assai nota che va sotto il titolo di “L’obbedienza non è più una virtù“. E’ peraltro singolare come don Milani fu invece sempre molto obbediente nei confronti dei suoi superiori. Lo dimostra un aneddoto, raccontato da don Rossi nella citata intervista, in occasione dell’Anno Santo del 1950. Don Milani voleva andare in bicicletta a Roma e chiese al card. Dalla Costa il permesso di non indossare la tonaca. Di fronte al rifiuto dell’arcivescovo, don Lorenzo obbedì e fece il pellegrinaggio pedalando con la talare.

Don Primo e i “lontani”

L’obiezione di coscienza è uno dei punti di contatto tra don Milani e don Mazzolari. Per il resto, molte sono le differenze. Il primo nacque in una famiglia fiorentina agiata, agnostica, con madre di origine ebraica. Fu battezzato da ragazzino e si convertì a 20 anni. Don Mazzolari invece era il primogenito di 5 figli di una famiglia contadina di Cremona ed entrò in seminario a 12 anni. L’altro punto in comune tra i due sacerdoti è l’opposizione di parte della gerarchia. Fin dagli anni del seminario Don Mazzolari dovette fare i conti la repressione del modernismo che lo portò a una crisi vocazionale superata con l’aiuto di un barnabita, padre Gazzola. Più tardi, fu bersaglio della censura ecclesiastica (e di quella del regime fascista) a causa delle sue idee. In particolare, la necessità di portare il messaggio evangelico anche ai “lontani”, o a quanti si erano allontanati dalla Chiesa per colpa dei peccati e del comportamento di tanti cristiani. O quella di riformare la società italiana (siamo negli anni Trenta) su basi morali di giustizia, solidarietà, sostegno ai poveri. Posizioni quanto mai attuali che però a quei tempi suonavano come “eversive”, sia per il S. Uffizio, che giudicò erroneo il libro “La più bella avventura”, sia per i fascisti, che nel 1931 provarono a eliminare il prete scomodo con tre colpi di rivoltella andati a vuoto.

Tromba dello Spirito Santo

Nel dopoguerra don Primo non rinunciò alla sua missione di avvicinare i “lontani”. Celebre una sua frase: “Combatto il comunismo, amo i comunisti“. Fu amico di personaggi come Giorgio La Pira e padre David Maria Turoldo, come pure del fondatore di Nomadelfia, don Zeno Saltini, appoggiò la Dc ma rimase deluso dalle vicende politiche del tempo. Negli ultimi anni della sua vita rafforzò la scelta a favore dell’obiezione di coscienza e contro ogni guerra. E cambiò anche il vento nella Chiesa: nel 1957 l’arcivescovo Montini lo chiamò a predicare la missione a Milano e Papa Giovanni XXIII, ricevendolo in udienza nel 1959, lo definì “Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”. Lo stesso Montini, divenuto Paolo VI, dirà di don Mazzolari: “Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti”. Il nullaosta per l’apertura della causa di beatificazione di don Primo era giunto nel 2015. Ora sia il lavoro dei censori teologi che quello della commissione storica sono stati favorevoli ed è possibile che il processo parta, a livello diocesano, in autunno.

Preti di periferia

Due preti di periferia, in definitiva, di quelli con l’odore delle pecore che non hanno avuto paura di sporcarsi le mani, che hanno sofferto l’incomprensione sulla propria pelle per affermare e difendere concetti che oggi sembrano scontati ma che 50 o 60 anni fa suonavano come eresie. Due sacerdoti che si sono piegati sulle ferite dei fratelli più deboli e bisognosi, infischiandosene dei benpensanti scandalizzati. Ecco perché Papa Francesco vuole rendergli omaggio. Perché evidentemente vede in loro la figura del buon pastore, del samaritano che sa avere compassione dell’altro.

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