Dio e il mercato

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La salvezza e la felicità non vengono da un mercato ma da Dio e dalla condivisione tra gli uomini. Siamo, invece, schiavi di un debito. Un’entità resa metafisica. Le merci diventano divinità che obbediscono a Mammona: “Non vi sono alternative, ce lo chiede il mercato, ce lo chiede l’Europa” come spesso sentiamo dire. Il mercato è divinizzato e l’economia ha perso un disciplinamento da parte della politica, anzi le scelte della politica sono ininfluenti rispetto al mercato.

L’uomo si è creato un dio che lo sta risucchiando e un mercato non è, quindi, un’entità autonoma. L’economia è divenuta scienza dominante e di dominio e ha occupato il posto assente del teologo.
Gli egoismi individuali sono sporchi di lacrime e sangue e non hanno portato benessere. Non vi è più teodicea. In borsa vi sono ebrei, cristiani, musulmani che negoziano pacificamente come se appartenenti a un’unica religione attribuendo il titolo di “infedele” solo a chi fa bancarotta. Dipendiamo dalla produzione del nostro cervello e della nostra mano. Abbiamo creato regole sbagliate.

Religione… religio è ciò che religat, tiene insieme, con la forma “merce” come prerogativa di fede del mercato: unico valore che tiene insieme la società disgregata in singoli atomi di consumo.
Il mercato ha colonizzato il nostro immaginario e non riusciamo a trascenderci e ad avere la capacità di vedere oltre per paura. Siamo colonizzati da parole come “debiti”, “crediti”, “capitale”, “prestazione” usate ovunque e abbiamo perso la capacità critica di comprendere come siano in realtà abusate.
Fiducia verso le banche, le istituzioni: norme del mercato. Un furor teologico. Il dogma: bisogna crescere. Dissoluzione di ogni istanza religiosa ed etica.

Cosa accade? I giovani lo sono fino a 60 anni, la famiglia viene demolita, sei precario e flessibile, non hai stabilità come lavoro, affetti ed etica. La distruzione programmata della scuola e della cultura sono una delle conseguenze. Spesso si è sfruttati ma senza esserne sempre consapevoli.

Il dio mercato che si è creato, solo il teologo e il filosofo portando applicazioni concrete lo possono distruggere, liberando l’uomo. Il linguaggio è logoro e la fede dei maestri debole e claudicante. Niente è intoccabile e si può entrare negli intermundia. Avidità, egoismo, brama… sono le virtù che la teologia condannava.

Ci si affida a marchi e prodotti delle pubblicità. In “God we trust” è diventato “in brand we trust”. Siamo diventati gadget di decisioni altrui e del parlare di altri. Anzi, per primi accumuliamo “gadget” invece di acquisire indulgenze.

Abbiamo fatto perdere al mondo l’anima. Fortunatamente, Dio non vuole perdere il mondo. E non vuole che noi viviamo in colpe e debiti e che continuiamo a fare sacrifici umani senza perchè, per una folle fede nel mercato.

Viviamo in un’epoca dove forse per la prima volta si dice che vi è un solo Dio ma a quel Dio non si crede in quanto non creato da noi.  Torniamo a pensare all’esistente come possibilità, prassi. Il fatalismo dello spettatore rende fatale il mondo. Che si può trasformare.  Riprendiamoci la nostra anima che abbiamo svenduto prima del nostro corpo. L’essere come risultato dell’agire e non solo dell’essere di per sé, non come un dato di fatto inemendabile ma come l’esito di un porre sempre di nuovo trasformabile. Il mondo è un “porre” di un soggetto.

Il mondo è dato da Dio a noi e deve essere trasformato e assumere sempre più forme razionali. Solo se ciò che c’è si lascia pensare come trasformabile, ciò che c’è non è tutto.

 

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