Una mattina come tante, il caffè prima di andare a lavoro, il pc per leggere le mail e trovo aperta la pagina di Ask, deve essere stata mia figlia Beatrice, sto per chiudere ma leggo una parola pesante, volgare, che Black – questo il suo pseudonimo – fa su di lei. Io sono paralizzata ma non mi stacco da quella lista di insulti, minacce, volgarità, immagini. Alcuni suggeriscono persino diversi modi di farla finita semmai la vittima stesse nutrendo questo proposito. Cosa posso fare? Scopro che Carolina, Flora, Antonio, Amanda sono solo alcuni nomi di ragazzi di diversi continenti ma tutti “quindicenni figli del web” che si sono tolti tragicamente la vita, non prima di vomitare pubblicamente il loro disprezzo su quel web che li ha dapprima fatti decollare su mondi e scenari più grandi di loro per poi scaraventarli al suolo, nel vuoto. Tutto ha avuto inizio sul web dove anche la fine viene annunciata con sfoghi urlati, ma se la vita virtuale può non essere reale, l’esalazione dell’ultimo respiro lo è.
Non è sconvolgente soltanto che i piccoli criminali spesso ignorino di compiere reati o che le vittime patiscano così pesantemente questa violenza cibernetica ma soprattutto che si sentano “trappole della rete”. “Safer Internet Center”, “Save the Children”, “Telefono Azzurro” rendono evidente la pericolosa dimensione del fenomeno offrendo aiuto. Io, naturalmente mi sento totalmente chiamata a revisionare il rapporto con una figlia che ha un incontenibile bisogno di ascolto per moltiplicare le occasioni di dialogo e ridurre le fughe dalla vita di relazione a quella da *post*, dove tutto è immediato e una vacanza si sintetizza in qualche *emoticons. *Noi adulti per primi siamo dipendenti da superficiali social network e rischiamo continuamente di curare di più le “nostre pagine” della nostra vita! Ma non si può ridurre la questione alla sola responsabilità