“COSI’ FACEVAMO MORIRE I MALATI DI FAME E DI SETE”

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“Confusione e disinformazione”. Questa, secondo il presidente di Pro Vita onlus, Toni Brandi, la strategia di una “campagna mediatica orchestrata dai radicali” per spingere il Parlamento ad approvare la legge sulle cosiddette Dat, ovvero le Dichiarazioni anticipate di trattamento. L’incontro promosso alla Stampa estera con l’infermiera canadese Kristina Hodgetts ha rappresentato l’occasione per fare il punto sull’iter legislativo e portare la testimonianza di chi nella sua esperienza professionale ha praticato l’eutanasia passiva sui malati attraverso l’interruzione di alimentazione e idratazione.

L’esperienza

Ma prima del racconto, per certi versi drammatico, della Hodgetts, è toccato al segretario della Stampa estera, l’inglese Christopher Warde Jones, che ha moderato il dibattito, raccontare quello che gli è capitato alla fine dello scorso anno. “Mio fratello mi ha chiamato da Londra e mi ha detto di raggiungerlo subito perché nostra madre stava molto male. Il giorno dopo un medico mi ha avvicinato e mi ha spiegato che potevamo accelerare la fine per evitare che soffrisse. Io e mio fratello gli dicemmo di aspettare, di non fare nulla. Vorrei che quel medico vedesse ora mia madre che si è perfettamente ristabilita e a 84 anni guida ancora e fa un lavoro di beneficenza. Ma voglio sottolineare – ha concluso – che in quel momento noi non ci siamo resi conto di quello che stava accadendo”.

Storie di morte

Kristina è sposata, ha tre figlie e ha iniziato a fare l’infermiera nell’esercito canadese. E’ stata in Arabia con le forze di sicurezza poi ha lavorato in un pronto soccorso e in un reparto di terapia intensiva “dove pensavamo a salvare vite, non avevamo tempo per altro. Ora tutto è cambiato, bisogna chiedersi qual è la volontà del paziente, ci sono grandi responsabilità legali“. Infine, è stata coordinatrice infermieristica in una casa di cura. Qui, ha raccontato, “arrivavano dai medici ordini di cure palliative, cioè la somministrazione di morfina e la sospensione di acqua e cibo. Così si accelerava la morte per disidratazione“. Cure palliative è un eufemismo, ovviamente, perché quelle vere sono ben altra cosa. Una vera macchina della morte, a cui l’infermiera partecipava in buona fede finché non si è trovata ad affrontare il caso di un’anziana per la quale era stata disposta la sospensione delle terapie. Ma la donna il giorno dopo migliorò e così “una delle mie colleghe mi disse di andare a prendere nuovi ordini, non vogliamo che ‘torni’, vogliamo che muoia. Così feci. Era venerdì. Di solito un paziente in quelle condizioni muore nel giro di 72 ore. Ma il lunedì la donna era ancora viva”. Semplicemente stava succhiando acqua da una spugna che le avevano dato per bagnarsi le labbra screpolate. Era attaccata alla vita, con tutte le sue forze. “Ci siamo chiesti cosa stessimo facendo – ha proseguito Hodgetts – Non c’erano segni di una morte imminente. Ma la figlia, che pure era infermiera, non voleva che la nutrissimo e la idratassimo. Ci sono voluti nove giorni perché morisse, dopo una terribile agonia“.

La svolta

Poco tempo dopo un caso simile ha scosso ancora di più l’infermiera: “Fu ricoverata una donna, Kelly, accompagnata dalla figlia Kate. Il fratello, che era il tutore della madre, decise la sospensione di nutrizione e idratazione, nonostante avesse avuto solo un piccolo ictus. La sorella era contraria ma non ha potuto fare nulla. Fu terribile”. Kristina faceva parte della commissione incaricata di preparare le procedure “che si risolvevano sempre in due risultati: o il Dnr (cioè l’ordine di non rianimare) o la disidratazione. Espressi la mia opinione contraria e fui licenziata“. Un anno e mezzo dopo la Hodgetts si trovò “dall’altra parte: fui colpita da un ictus profondo inoperabile. Rimasi in coma 11 giorni ma mio marito si oppose a farmi fare la fine della signora Kelly. La sera prima del suo compleanno mia figlia fu avvicinata da un’infermiera che le disse di prepararsi al peggio. In realtà, la vicinanza della mia famiglia ha fatto la differenza. Quando mi sono ripresa sono diventata vicepresidente della Coalizione per la prevenzione dell’eutanasia. Dove la cosiddetta ‘dolce morte’ è legale è una strage. Si va su un piano inclinato su cui rischiamo di andare oltre i limiti, di diventare complici di atti che in passato avremmo giudicato indicibili. Non si può approvare una legge che toglie il diritto fondamentale alla vita e alla libertà“.

Affrontare il dolore

Kristina Hodgetts ha ribadito che “non esistono casi in cui l’eutanasia sia lecita” anche se ha affermato di capire che ci possono essere malati che fanno questa scelta: “Nella mia esperienza professionale ci sono stati pazienti che hanno chiesto di morire – ha raccontato rispondendo a una domanda di In Terris – ma di solito è facile convincerle che non sia la soluzione migliore. Quando si prende in carico tutto il dolore del malato, che non è solo fisico ma anche psicologico, sociale e spirituale, è più facile decidere per la vita. Spesso si affronta il dolore aumentando i dosaggi dei farmaci ma ci sono gli altri aspetti a cui bisogna dare risposte più convincenti per trattare molto meglio i pazienti”.

Brandi: “Non è compassione”

“Cosa c’è dietro l’eutanasia, compassione? No – ha incalzato il presidente di Pro Vita – Ci sono i profitti delle cliniche che la praticano, i risparmi del sistema sanitario e delle assicurazioni e una mentalità eugenetica per la quale il malato terminale, il vecchio o il disabile va eliminato perché è un costo e non produce. Purtroppo i sostenitori dell’eutanasia strumentalizzano casi pietosi di chi soffre e andrebbe aiutato per chiedere l’approvazione del testamento biologico. Ma è assurdo affidare a un pezzo di carta la nostra vita a lungo termine. Far morire di fame e di sete dopo una tremenda agonia di molti giorni è assurdo. E di fatto sono scelte irrevocabili perché prese in anticipo mentre le prospettive possono cambiare. La vita non appartiene solo a noi. Lo Stato ha il dovere di assistere i malati terminali. La realtà – ha concluso – è che si vuol far credere che il dolore sia il problema principale: non è vero, il punto è non sentirsi abbandonati“.

Andrea Acali: