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COME LITIGARE SUI SOCIAL NETWORK

Se da una parte i social network abbattono confini e distanze, connettendo ogni angolo del pianeta, dall’altra stimolano gli utenti del web ad un continuo confronto che, molto spesso, si trasforma in un vero e proprio conflitto. Una “guerra” a cui possono partecipare tutti: uomini, donne, adolescenti, adulti e anche qualche anziano iscrittosi a Facebook per sentire più vicino il nipote che studia o lavora all’estero. Quotidianamente si scontrano diversi mondi (culturali, sociali e religiosi): bastano un like, un commento, o un retweet ad innescare lunghe battaglie dove ciascuno sostiene il proprio punto di vista, litigando e insultando chi non è d’accordo, spesso scivolando nel politically correct. Cosa fare? Esistono regole per “litigare” sui social? In Terris ne ha parlato con Bruno Mastroianni, giornalista e docente di Media Relation presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, autore del volume “La disputa felice” (Franco Cesati Editori, 2017), un libro che traccia le linee guida per intavolare dibattiti costruttivi non solo sui social network, ma anche sui media e in pubblico.

Prof. Mastroianni, i social hanno ridotto le distanze, ma spesso questa vicinanza si trasforma in un vero e proprio conflitto. Cosa sbagliamo?
“Non è tanto ciò che sbagliamo quanto il fatto che non siamo preparati a gestire un rapporto ordinario e costante con la diversità. Prima della diffusione dei social la differenza – culturale, sociale, religiosa – era qualcosa che incontravamo con meno frequenza e di solito per scelta. Oggi ‘l’altro’ anche distantissimo dal proprio mondo piomba abitualmente nelle nostre timeline e nei commenti ai nostri post: se non si è preparati, l’esperienza può portare a reazioni scomposte e difensive”.

Nel suo libro parla di un incontro-scontro che avviene quasi ogni giorno “senza mediazioni”. Cosa significa?
“Che non c’è nessuna autorità che gestisca o possa gestire l’incontro tra mondi che avviene quotidianamente online. Quella dei social è una dimensione caratterizzata da una discussione costante e senza filtri. Impossibile fare una selezione all’ingresso tra chi possa o meno dire qualcosa o stabilire in che modo possa farlo. Ognuno può dire ciò che vuole senza chiedere il permesso. Questa assenza di mediazione richiede che chi partecipa alla conversazione sviluppi la capacità di autoregolare il proprio modo di gestire la libertà di intervenire nel dibattito pubblico”.

Cosa innesca uno scontro tra gli utenti?
“Di solito è una reazione di difesa di fronte a qualcosa che mette in dubbio il proprio mondo di riferimento. Diventiamo ostili quando sentiamo nelle parole dell’altro qualcosa che sfida la nostra visione abituale della vita. Spesso non ascoltiamo neanche fino in fondo ciò che dice e prendiamo subito una posizione contrapposta, quasi per evitare lo sforzo di argomentare e motivare le nostre convinzioni”.

In una “disputa felice” quanto è importante il modo in cui si espone la propria idea?
“È cruciale perché la forma è sostanza. Il ‘ciò che si dice’ e ‘il modo in cui si dice’ non sono due concetti separati, si presentano sempre assieme e uno rimanda all’altro: il messaggio si compone tanto dell’atteggiamento quanto delle parole che si usano per trasmetterlo. Essere e comunicare sono la stessa cosa. Soprattutto in un ambiente relazionale e di conversazione come quello dei social”.

Nel suo libro definisce il politically correct uniformante e asettico …
“Chi ricorre al politicamente corretto rinuncia a discutere pur di evitare i conflitti. Ha in sé la buona intenzione di mantenere la relazione con l’altro, ma per farlo sacrifica il confronto. È asettico perché crea una specie di codice di discussione in cui si parla solo di certe cose e di altre no per non turbare nessuno. E’ uniformante perché non sa apprezzare la divergenza e la differenza che emergono da ogni sano dialogo, e che ne sono la ricchezza”.

Roberto Saviano, di recente, ha affermato: “I social hanno azzerato ogni distanza tra il ‘personaggio’ e le persone che hanno compreso e interiorizzato una regola aurea: l’unica interazione possibile è l’insulto”. Cosa ne pensa?
“Che l’insulto è una reazione scomposta all’incontro con la diversità. Ma non è un destino ineluttabile. Ciò che vediamo accadere sui social ci dice che la sfida è educare ad argomentare, a trovare nella prospettiva dell’altro un’occasione per esprimersi meglio e anche per mettere un po’ alla prova le certezze che troppo spesso diamo per scontate. Gli scontri online ci parlano di una necessaria azione educativa e culturale per mettere gli utenti nelle condizioni di partecipare al dibattito pubblico libero e diffuso. Incontrare chi non è d’accordo, sforzarsi di confrontarsi con chi diverge, è una grande occasione di crescita umana e culturale”.

Le fake news posso incidere sulla “disputa felice”?
“Le fake news trovano terreno fertile nella tendenza che abbiamo tutti a cercare solo conferme di ciò che già pensiamo. Spesso la bufala prende piede perché risponde a una certa concezione della realtà che abbiamo e ce la conferma. Controllare sempre l’attendibilità è uno sforzo umile e paziente che ormai devono fare tutti, soprattutto quando ci si trova di fronte a notizie urlate che chiamano a una reazione di sdegno… Spesso sono informazioni imprecise o manipolate ad hoc per ottenere reazioni scomposte o per guadagnare facili consensi attraverso l’indignazione”.

Come si realizza una “disputa felice”?
“Occorre fare tre cose: uscire dalla zona di sicurezza della proprie certezze, argomentare sempre ciò che si sostiene con ragionamenti comprensibili all’altro, non salire su un pulpito ma guadagnarsi sempre sul campo la credibilità di ciò che si sostiene. E’ importante non solo ‘dire cose’ ma anche stabilire relazioni con altri, specie quando si è su prospettive differenti: da quello sguardo dell’altro verranno le soddisfazioni più grandi del discutere”.

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