Oltre 100 milioni di americani si recheranno alle urne nelle prossime ore per eleggere il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Da una parte Hillary Clinton, dall’altra Donald Trump. Due personaggi mai così antitetici, nei programmi e nel background. Il candidato repubblicano rappresenta il volto nuovo della politica Usa. Alle sue spalle un impero finanziario che gli ha consentito di accumulare un patrimonio personale stimato tra i 4,5 (secondo Forbes) e i 9 (per il Washington Post) miliardi di dollari.
Conquistata la nomination del “Grand Old Party” con un consenso oceanico (quasi 13 milioni e mezzo di voti, record assoluto per “l’elefantino”), Trump affronta per la prima volta la corsa verso la Casa Bianca. Il suo impegno politico è piuttosto recente. Nel 2008 annuncia il suo sostegno al candidato repubblicano John McCain, poi sconfitto da Barack Obama. Due anni dopo la trasmissione della Cnn “American Morning” paventa la possibilità di una discesa in campo del tycoon neyorchese in vista del voto del 2012. E’ lo stesso Trump, però, a smentire le voci, affermando di non essere “ancora pronto a lasciare il settore privato”. E nelle successive primarie appoggia l’ultraconservatore Newt Gingrich contro Mitt Romney. Nel 2015 l’ipotesi di una candidatura per la presidenza Usa diventa realtà: in un mega evento nella Trump Tower di New York il magnate annuncia ufficialmente di voler correre alla nomination repubblicana in vista delle Us Election 2016.
Clinton, viceversa, mangia pane e politica sin dai primi anni dell’impegno pubblico del marito Bill. Nel 1993 diventa First Lady degli Stati Uniti, onorificenza che mantiene sino al 2001, quando si conclude il secondo e ultimo mandato di Clinton. Hillary è una delle prime mogli di un presidente americano a non limitarsi al cerimoniale. Al contrario interviene, consiglia e si ritaglia un ruolo importante all’interno dello Studio Ovale. Tanto che, malignamente, in quegli anni qualcuno si chiede quale Clinton sia l’effettivo capo di Stato. Chiusa l’esperienza a Washington, smaltite le ultime scorie del “Sexgate” (la relazione extraconiugale di Bill con la stagista Monica Lewinski), Hillary asseconda la sua passione per la politica. Nel 2001 diviene senatrice dello Stato di New York, carica che mantiene sino al 2009, quando Barack Obama la nomina segretario di Stato. “Mi ha reso un presidente migliore” le ha recentemente riconosciuto l’attuale inquilino della Casa Bianca.
Gli americani sono quindi chiamati a decidere tra un neofita e una figlia dell’establishment. Fra una visione estrema, e per molti versi controversa, della politica e un ritorno al passato. Perché Clinton non è Obama. Non è “hope” o “yes we can“. E potrebbe non avere quell’empatia con il popolo che il presidente uscente ha saputo conquistarsi in 8 anni di successi, sul piano della politica economica e del recupero di quell’american pride gravemente danneggiato dalla crisi e dagli errori (qualcuno direbbe orrori) di George W. Bush.
“Gli americani non sceglieranno il migliore, ma il male minore” è il leit motiv ripetuto dagli esperti di politica d’oltreoceano. E in questa decisione si affideranno soprattutto ai programmi dei due candidati. Protezionista quello di Trump, progressista quello della rivale. La politica economica di Donald ruota attorno a tre punti: riduzione del debito, taglio delle tasse a favore di imprese e classe media e aumento dei posti di lavoro. Hillary, da parte sua, propone una riforma fiscale mirante a favorire gli investimenti esteri e agevolazioni per i piccoli imprenditori attraverso una semplificazione della burocrazia.
Per quanto riguarda gli approvvigionamenti energetici mentre Trump, che definisce una “bufala” il riscaldamento globale, non vede alternative credibili alle fonti fossili per il rilancio dell’industria, Clinton, dice di voler continuare a puntare sulle rinnovabili, sia pur in modo più cauto di quanto fatto da Obama. Sul piano della politica estera la diversità di vedute è totale. Trump, oltre a promettere una sconfitta totale dell’Isis, è favorevole a un disgelo delle relazioni con Russia e Cina, a un aumento dei contributi alleati a favore della Nato (“altrimenti si difendano da soli”), a una riduzione dell’invio di truppe all’estero “salvo che sia assolutamente necessario” e all’attuazione di misure che impediscano all’Iran avere il nucleare. Clinton, invece, non punta a un recupero delle relazioni con Mosca. Sostiene la necessità del mantenimento o inasprimento delle sanzioni per la crisi ucraina. E sulla Siria ha una visione completamente opposta rispetto a quella del Cremlino. Vuole rafforzare la posizione americana all’interno della Nato e riprendere le fila dei rapporti con Israele, avendo criticato l’operato filo-palestinese di Obama.
Estreme le idee di Trump sul fronte dell’immigrazione. Il candidato repubblicano vuole costruire un muro sul confine meridionale (quello con il Messico), abolire la cittadinanza per nascita, collocare solo gli statunitensi ai posti di comando e attuare un piano che migliori lavoro, salari e sicurezza solo per gli americani. Clinton, invece, propone una riforma globale dell’immigrazione che tuteli i diritti dei migranti, considerati fondamentali per la crescita economica.
I due programmi sono stati oggetto di una campagna elettorale mai così velenosa. Per screditare il suo avversario l’ex first Lady ha dipinto Trump come un maschilista, a seguito delle accuse di molestie sessuali avanzate da 8 donne. Il magnate, dopo aver rispolverato il “Sexgate”, ha puntato tutto sullo scandalo del “Mailgate“, cioè l’utilizzo da parte dell’ex Segretario di Stato di una casella di posta elettronica privata per l’invio e la ricezione di comunicazioni riservate. Entrambe le vicende hanno inciso sui sondaggi, con Clinton (lanciatissima sino a poche settimane fa) che ha visto progressivamente assottigliarsi il consenso attorno al suo nome. Secondo l’ultima rilevazione Abc/Washington Post la candidata democratica è in vantaggio di 5 punti sul rivale (48% a 43%). Ma in una nazione in cui l’elettorato è sempre più liquido dare per certa la vittoria di Clinton è operazione quanto mai azzardata. Gli indecisi sono tantissimi e la partita negli “Swing States“, cioè quegli Stati che nel sistema americano risultano decisivi per la vittoria, è ancora aperta. Per entrambi sarà una sfida all’ultimo voto.