Immaginate di vivere in un mondo ostile, dove la morte è la triste compagna di viaggio di un’esistenza vuota. In cui la sopravvivenza è strettamente connessa all’istinto animale che emerge ogni qual volta le nostre condizioni sono portate allo stremo. Provate a pensare cosa significhi non conoscere l’amore, la compassione, ma provare ogni giorno lo stesso, immanente, sentimento di indifferenza; anche quando intorno a voi la vita si spegne e nell’aria risuonano solo grida di terrore o il silenzio che prelude al peggio. Per Shin Dong-hyuk durante 22 anni la realtà è stata questa, lui unica persona nata, cresciuta e poi riuscita a fuggire da un campo di internamento nordcoreano. Una di quelle strutture che tempo fa Kim Jong-un, signore incontrastato di Pyongyang, ha definito centri per “la rieducazione del pensiero”.
Shin da anni gira il mondo per raccontare la sua esperienza e ricordare che lontano dai nostri occhi il dramma dell’Olocausto si consuma ogni giorno. La sua voce non tradisce nessuna emozione mentre racconta di quando ha assistito all’impiccagione della madre e del fratello che lui stesso aveva denunciato alle guardie. Un particolare raccapricciante ma che serve, ancora una volta, a far capire il vero scopo dei totalitarismi: trasformare gli individui in ombre, strappando loro ogni barlume di umanità. Nel Campo 14 (questo il nome del centro detentivo in cui si trovava) vedeva la realtà circostante nascosta dietro una cortina di fumo. “Nessuno mi spiegava perché stessi là – ha spiegato in una recente intervista – pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro. Forse per questo non ho mai pensato di fuggire”. Fino a quando non conobbe la verità attraverso il racconto di un nuovo prigioniero. Scoprì che là fuori c’era un mondo desiderabile, in cui il cibo abbondava e la libertà era un diritto riconosciuto. Decise che valeva la pena provare. Uno dei suoi compagni (ironia della sorte lo stesso che gli aveva aperto gli occhi) rimase folgorato sulle recinzioni, ma per Shin non c’era scelta: usò il cadavere come una messa a terra e riuscì a dileguarsi nella notte. Oggi il suo corpo somiglia a una mappa dell’orrore: le braccia curve per i lavori forzati, le caviglie deformate dai ceppi usati per tenerlo a testa in giù, il dito medio mozzato, la schiena ustionata e il ventre bucato da un gancio metallico con cui è stato appeso sopra le fiamme. L’incontro con il regista Marc Wiese e quello con il giornalista Blaine Harde gli hanno permesso di trasformare la sua storia in uno schiaffo al regime comunista di Pyongyang.
Artificiosamente nascosto per anni (anche con la connivenza di alcuni Paesi) il dramma dei campi di concentramento è emerso solo di recente, grazie a un rapporto della Commissione d’inchiesta Onu sulla violazione dei diritti umani nello Stato asiatico. Vi si leggono le efferatezze compiute dalle guardie sui prigionieri, ricostruite con il contributo di 80 testimoni ascoltati in udienze pubbliche a Tokyo, Londra, Seul e Washington. Sulla base delle evidenze fornite le Nazioni Unite hanno minacciato l’incriminazione del regime davanti alla giustizia internazionale. Negli ultimi 50 anni centinaia di migliaia di detenuti sarebbero stati uccisi nei modi più atroci: tortura, stupro, esecuzioni sommarie, aborti e lavori forzati. Senza contare le morti avvenute per la fame o le infezioni.
Ma sono le storie individuali a rendere più nitido l’orrore. Come quella di una madre picchiata selvaggiamente da una guardia e poi costretta ad annegare il suo bambino perché piangeva troppo. O quella di una ragazza, “colpevole” di aver mangiato dei fili d’erba per nutrirsi, obbligata a ingurgitare terra fino a spirare. La sopravvivenza è l’unico pensiero degli internati, non c’è spazio né per la pietà né per la propria dignità. “Abbiamo visto talmente tante persone morire che ci siamo abituati” ha raccontato un sopravvissuto “mi dispiace dire tutto questo, ma ci siamo così abituati che non riusciamo a provare più nulla. In Corea del Nord, a volte l’unica cosa che chiedono persone sul punto di morire è qualcosa da mangiare. Oppure, quando qualcuno muore, viene spogliato dei suoi vestiti. I vivi devono andare avanti”.
La brutalità e il cinismo trasformate in condizioni di esistenza. Il tutto mentre, anche in Occidente, talvolta si guarda ai totalitarismi come qualcosa di desiderabile, perché garantiscono l’ordine e il rispetto delle leggi. Eppure la Storia ha insegnato e continua a insegnare esattamente l’opposto. Perché “non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere” (George Orwell “1984”).