Una questione spinosa, quella del Blue Whale game, della quale si è ampiamente discusso ragionando sulla sua presunta veridicità e sulla sua eventuale enfatizzazione. Al di là delle pochissime certezze correlate al fenomeno, però, resta un dato certo: lo strumento del web, assieme alle sue insite potenzialità a livello di contenuti e comunicazione, presenta allo stesso modo dei rischi concreti dei quali si dovrebbe essere a conoscenza. Un fattore, questo, valido in particolare per i più giovani internauti (in un certo senso i maggiori fruitori di internet) e non tanto per la loro scarsa prudenza nell’utilizzo delle piattaforme online, quanto per la potenzialmente pericolosa suggestionabilità, da parte dei soggetti più sensibili, a quei lati “oscuri” in esse contenuti. Per questo, Blue Whale o meno, è necessario non creare allarmismi ma una forte presa di coscienza (e conoscenza) che metta al corrente l’utenza più giovane dei tanti pericoli che, in modo diretto o indiretto, potrebbero essere perpetrati dal meccanismo del web. Ne abbiamo parlato con Annamaria Giannini, docente presso la Facoltà di Medicina e psicologia presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” che, nell’ambito di una recente ricerca condotta proprio in merito alla consapevolezza dei rischi della rete fra gli adolescenti, ha avuto modo di affrontare l’argomento nei suoi aspetti più reconditi, individuando il grado di percezione dell’incognita virtuale e, allo stesso tempo, i percorsi utili per lo sviluppo di una valida cognizione i quali, in qualche modo, passano anche dal recupero di una certa tipologia di comunicazione.
In merito alla vicenda del Blue Whale, quanta influenza può esercitare questo fenomeno o, più in generale, la diffusione di notizie come queste sui più giovani?
“Anticipo che questo è un fenomeno del quale non si sa veramente nulla. Le prime reazioni lo hanno inquadrato come di una certa entità, scatenate soprattutto da un servizio televisivo. Immediatamente, però, la Procura ha chiesto cautela perché non c’erano dati sicuri e, in Italia, non c’è stato nessun suicidio da Blue Whale: questa è cosa certa. Nessun elemento, fra quelli descritti, è arrivato all’osservazione della Polizia postale e della Procura. Dopodiché ci sono stati alcuni casi dei quali sono pervenute alcune segnalazioni ma non si capiva bene quale fosse l’entità. Sembrava fossero riferite ad aspetti come i segni sulle braccia, gli stessi che sono considerati l’inizio del percorso, ma nemmeno in quei casi è stato accertato che si trattasse veramente di quel fenomeno. Finché, addirittura, è emerso che, forse, quel servizio televisivo non fosse del tutto veritiero in tutti i suoi aspetti, che fosse stato un po’ enfatizzato. Di conseguenza se ne sa proprio pochissimo”.
Al di là della veridicità o meno del caso specifico, esiste la possibilità che tali fenomeni possano manifestarsi in rete?
“Quelli accertati finora sono altri tipi di fenomeni: alcuni ‘giochi’ che i ragazzi fanno, come quello di sfidare le persone a bere sempre di più fino a raggiungere il coma alcolico. Questo è un dato accertato, nei pronto soccorso degli ospedali è arrivata l’osservazione su giovani che avevano praticato questa sfida. Quindi, evidentemente, un’induzione di questo genere ci può essere: spingere coetanei e amici ad adottare determinati comportamenti. Poi, ancora, il ‘famoso’ challenge di dare pugni alle persone per la strada. Anche questo è un fenomeno noto: si spingevano l’un l’altro a praticarlo incitandosi e, in qualche modo, dando del codardo a chi si rifiutava di farlo. Questi sono fenomeni reali, arrivati sicuramente anche all’attenzione della Polizia di Stato ricevendo un loro riscontro e hanno a che fare col fenomeno della suggestionabilità che riguarda molto le fasce giovanili. Gli adolescenti, per la fase di sviluppo che attraversano, presentano due caratteristiche: da una parte c’è l’attrazione per il rischio e le azioni forti (a volte praticano sport estremi o si mettono a rischio).
Ad esempio?
Basti pensare al fenomeno del balconing (saltare da un balcone all’altro) o dell’attraversamento dei binari del treno… Queste sono cose che hanno sempre fatto anche al di fuori del web il quale, però, facilita tutto ciò: ci sono giovani soli o con problemi di solitudine che navigano molto e trovano nella rete il terreno fertile per praticare questi aspetti che sono comunque praticabili anche fuori. In più, il web facilita l’intervento di persone, siano esse minori o maggiori di età che, in qualche modo, li possono suggestionare, spingere a comportamenti di rischio e anche autolesivi perché non ci dimentichiamo che dentro al web possono nascondersi guru di gruppi esaltati e quant’altro. Di conseguenza diciamo che l’esposizione senza cautele a tutti gli elementi di stimolazione della rete è molto rischiosa. Ci si chiede se possa essere possibile il Blue Whale? Probabilmente sì, nel senso che, un giovane particolarmente fragile, potrebbe farsi trascinare in un comportamento di quel genere. Certamente arrivare al suicidio implica una suggestionabilità altissima, stiamo parlando evidentemente di persone fragilissime non certo di tutta la popolazione giovanile. Però non è escludibile: come abbiamo visto in comportamenti veramente particolari, tipo il balconing o, attraverso sempre il web, il bere fino al ridursi in coma alcolico (che, se vogliamo, è sempre una forma di suicidio), non possiamo escludere altri comportamenti che portino ad autolesionismi gravi”.
A livello giovanile, c’è la consapevolezza dei rischi del web?
“Su questo abbiamo fatto una ricerca recente e, tecnicamente, loro hanno ben presenti i meccanismi di funzionamento del web. In molti casi sanno anche qual è il destino delle immagini che pubblicano o comunque di come usano i social, parlando dell’elemento che li attrae di più. Ma è il problema emotivo che caratterizza l’adolescente: all’atto pratico, nel momento in cui viene in mente di pubblicare qualcosa, lanciare un gioco o assumere un comportamento di rischio, lo fa nel web e fuori. Perché non è l’ignoranza l’unico fattore: a volte sì, non sanno a quante persone arriva ciò che postano però, su 2 mila questionari raccolti, abbiamo visto che la consapevolezza c’era. L’aspetto emotivo gioca un ruolo importante: nel momento in cui vogliono trasgredire lo fanno di getto e tranquillamente”.
Parlare di un fenomeno presunto, è utile in funzione di una cognizione o è più elevato il rischio dell’emulazione?
“Il problema è proprio questo. Noi diciamo sempre di essere molto cauti perché, se si parla di una cosa di cui non siamo totalmente sicuri c’è il rischio di farla venire in mente. Parlando di una cosa che c’è, invece, dobbiamo avere certezza dell’entità del fenomeno. A un convegno di alcuni giorni fa nella sede della polizia postale, nel Polo Tuscolano, la dott.ssa Ciardi ne ha parlato usando molto correttamente le massime cautele. Nel suo discorso introduttivo ha specificato che si parla di questo fenomeno, che è stato evidenziato e che alcuni elementi caratteristici del Blue Whale, come le ferite sulle braccia, sono stati riscontrati ma ha spiegato che noi, in Italia, non abbiamo avuto notizie di suicidi da qui derivati: quindi è un dato non accertato e la Procura invita a grande cautela. Io penso sia il caso di attenersi agli organi competenti: siccome non sappiamo se ci sono stati suicidi o interi percorsi Blue Whale compiuti dai ragazzi del nostro Paese, dobbiamo essere cauti nel denunciare un fenomeno che, all’inizio, era stato addirittura dato per dilagante.
L’importante è quindi prevenire il rischio con una formazione specifica…
Se si parla con i giovani (noi abbiamo raccolto 2000 questionari su 20 province e sono molti) ci si rende conto che le fasce giovanili non sono fatte solo di gente esaltata ma anche di giovani consapevoli, pur caratterizzati da una certa trasgressività. Dunque determinate proposte, su persone più fragili, possono attecchire. Il discorso serio da fare, quindi, è quello della prevenzione, invitando all’attenzione anche nel rispondere a un messaggio: il Blue Whale, infatti, inizierebbe con la richiesta al ragazzo di svegliarsi alle due del mattino e guardare un film dell’orrore. Ora, siccome si costituirebbe di un progressivo condizionamento, all’inizio si chiedono comportamenti diciamo ‘fattibili’, poi un altro esercizio, poi un altro ancora… guardandolo nell’insieme sembrerebbe un programma di condizionamento che usano, ad esempio, i gruppi di esaltati o le sette: all’inizio si chiedono cose fattibili, poi si arriva fino a quelle gravi. Ciò che è utile fare, al di là dell’allarmismo o del dare numeri a caso, è una buona formazione, soprattutto nelle scuole, per spiegare che queste sono cose pericolose. Questo credo sia l’approccio corretto alla questione: formare ed educare su quelli che sono i rischi della rete, da un punto di vista emotivo e cognitivo. I ragazzi devono sapere che certi elementi o richieste possono preludere ad aspetti più complessi, rispetto ai quali non hanno difese. Coloro che si celano dietro questi inganni, purtroppo, sono persone molto navigate da questo punto di vista”.
Conosce il film in uscita “Nerve” che tratta proprio l’argomento delle sfide online?
“Non l’ho visto ma ne ho sentito parlare. Questo apre tutta un’altra questione sulla filmografia e su ciò che facciamo vedere ai minori. Per fortuna esiste ancora un organo nel Ministero dei Beni culturali, che sono le commissioni di revisione cinematografica, fatte di esperti che dovrebbero valutare la necessità o meno di porre un divieto alla libera visione. In Italia abbiamo uno strumento rigido, addirittura dei primi del ‘900, cioè il divieto ai minori di 14 o di 18 anni. In genere, però, come ho notato durante la mia esperienza in queste commissioni, le fasce di rischio sono proprio quelle dai 14 ai 18 perché, in qualche modo, tendono a esaltarsi nel vedere certe cose, così come con i videogiochi… Quindi bisogna fare molta attenzione perché certi film sono quelli che attraggono di più i ragazzi di quell’età”.
Assieme alla prevenzione, possono esserci soluzione alternative come la rieducazione a un tipo di relazione che non sia esclusivamente quella interattiva?
“Sarebbe fondamentale, straordinario. Noi vediamo che molti comportamenti d’impeto sono dati dall’abitudine a non avere più spazi di pensiero o riflessione, perché la rete spinge al comportamento immediato, all’interazione. Ma osserviamo che anche nella comunicazione via mail o nelle reazioni che abbiamo quando postiamo qualcosa emerge un’enorme aggressività, tanto che si parla di hate speech: è frequente, sotto un articolo ad esempio riguardante un personaggio famoso, vedere non la critica, che sarebbe accettabile, ma commenti violenti e di odio. Tempo fa la presidente della Camera Boldrini ha mostrato dei post incredibili che le venivano rivolti, con minacce di morte, disprezzo e reazioni veramente esagerate. Sicuramente la psicologia ci dice che tutto questo è dato da una certa tipologia di comunicazione che non prevede più che le persone usino la riflessione o le immagini mentali, come accadeva quando il principale strumento di comunicazione era la carta stampata. Oggi, purtroppo, lo stampato tende a essere escluso, non affiancato alla rete. Le persone si informano, reagiscono e interagiscono sulla rete e quindi con i suoi tempi veloci; fruiscono dei programmi televisivi facendo zapping ed è abbastanza raro che riescano a seguire continuativamente un certo discorso. Di conseguenza tutto è molto frammentato. Per esempio, le persone parlano fra loro consultando il cellulare: mi è capitato di essere a cena in un ristorante e notare un tavolo dove c’erano molti bambini che avrebbero potuto interagire fra di loro in molti modi eppure ognuno aveva in mano il proprio tablet, dialogando con quello strumento davanti senza che i genitori intervenissero. Le considerazioni che si possono fare sono tante: oggi, per esempio, sono considerati lettori forti coloro che leggono tre libri in un anno, mentre prima i numeri erano ben altri. Quindi, tutti questi cambiamenti nella comunicazione che non sono accompagnati da parte degli adulti, possono essere considerati all’origine della lettura sociologica del problema”.